I tempi cambiano, abbiamo bisogno di un nuovo Keynes

Dopo il dominio liberista, la pandemia e ora la guerra hanno reso evidente l’attualità del pensiero di John Maynard Keynes e di quello dell’italiano Federico Caffè, sostenitori di una politica economica in grado di intervenire per ridurre le disuguaglianze e garantire benessere a tutti
Keyines vs scuola di Chicago. Foto New York Stock Exchange in New York (AP Photo/Seth Wenig, File)

Che fine ha fatto Keynes? Ci sono letture che dopo poche righe riportano ad un tempo diverso, e contemporaneamente sembrano gettare una luce nuova su quel tempo trascorso. È quanto accade leggendo “Dimmi tu cosa vedi da lì” ultima fatica del finanziere Guido Maria Brera, edizioni Solferino.

Ero studente di economia alla fine degli anni ’80 del secolo scorso e ricordo vivamente le dispute accademiche fra coloro che si definivano keynesiani, con le diverse varianti “post” e “neo” e coloro che all’epoca si definivano “monetaristi” capeggiati dal caposcuola di Chicago Milton Friedman.

I primi sostenevano un ruolo attivo dello Stato in economia con interventi di politica fiscale redistributiva. I secondi ritenevano sufficiente governare con le politiche monetarie, valutando che l’intervento dello stato avesse effetti distorsivi o quantomeno dannosi.

Si trattava di un confronto non solo fra due teorie economiche ma fra due visioni del mondo. Perché la trentennale offensiva liberista ha prodotto non solo un cambio di politiche economiche, con l’evidente arretramento dello stato sociale – ne abbiamo avuto piena contezza nella pandemia-, ma anche un profondo cambio culturale.

Citando Brera «Alle porte bussava un tempo nuovo, il tempo di un individualismo furbo, di un benessere senza sogni troppo larghi, senza più orizzonti collettivi. Emergeva uno stato nascente della disuguaglianza per chi se la merita, dell’ognun per sé, e alla via così, la nave va». Con l’elogio dell’avidità, icasticamente rappresentato dal personaggio di Gordon Gekko nel film “Wall Street”.

Quel tempo nuovo presagiva una prospettiva diametralmente opposta a quella di Keynes e di uno dei sui migliori allievi, l’italiano Federico Caffè, scomparso in circostanze misteriose.

Secondo Keynes, e Caffè, andava costruita una “civiltà possibile” in cui la politica economica intervenisse per ridurre le disuguaglianze e garantire benessere a tutti, salvaguardando la giustizia sociale e la dignità del lavoro. L’economia doveva essere a servizio dell’uomo.

Proprio negli anni dell’università ad un compleanno ricevetti in dono un libro di Caffè. Brera nel suo romanzo si mette proprio sulle tracce di Caffè e così anch’io ripenso e ripercorro questi trent’anni. All’inizio sono stato affascinato come tanti dalle nuove teorie che promettevano meno invadenze dello Stato, più protagonismo del settore privato, meno debito pubblico, spesso cattivo e legato ad “acquisto di consenso”.

Poi quando ho cominciato a vedere gli effetti di questa ondata fuori controllo, dove la finanza prendeva il controllo sulla vita delle persone, facendo spesso scaricare sui più poveri gli effetti dei propri errori, ho cominciato a sospettare che questo pensiero dominante avesse qualche debolezza proprio nei fondamenti.

Ero in buona compagnia perché anche Paul Samuelson, noto economista americano, aveva subito lo stesso fascino e si era poi ricreduto.

Con i recenti interventi di politica economica italiani ed europei, su tutti il “Recovey Plan”, sembra riaffacciarsi la prospettiva keynesiana. A guardare bene l’impressione è che in realtà, basti vedere l’applicazione e gli effetti dei superbonus italiani – che hanno ampliato le disuguaglianze -, siano tornati gli strumenti keynesiani ma senza il rigore teorico e applicativo del pensatore di Cambridge.

Accanto alla crisi ambientale, una guerra nel cuore dell’Europa amplifica ulteriormente il bisogno di cambiare rotta. In trent’anni il mondo è cambiato e di certo teorie e strumenti hanno bisogno di essere ripensati. Servirebbe un nuovo Keynes per la sua capacità di leggere la realtà ed innovare la scienza economica. Innovazione che la stessa politica dovrebbe seguire.

Con coraggio, come ci ricorda Brera, in uno dei passaggi più intensi del suo romanzo: «A cavallo tra le due guerre, in Germania», racconta l’ex presidente della Banca centrale europea, «mio padre vide un’iscrizione su un monumento. C’era scritto: se hai perso il denaro non hai perso niente, perché con un buon affare lo puoi recuperare; se hai perso l’onore, hai perso molto, ma con un atto eroico lo potrai riavere; ma se hai perso il coraggio, hai perso tutto.»

 

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