Teatro Povero di Monticchiello: dalla favola ai poteri degenerati

Un intero paese, nel senese, mette in scena le diverse forme che può assumere chi detiene il potere. Da un racconto medievale riletto in chiave moderna ed attualizzato
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Con l’edizione di quest’anno sono quarantasei. Protagonisti, sempre, tutti gli abitanti, coinvolti nella realizzazione dello spettacolo. Il Teatro Povero di Monticchiello, nato e sviluppato nel piccolo paese di un centinaio di abitanti della campagna senese, è un’esperienza teatrale strettamente legata alla vita ed alla storia della comunità del luogo, fin dal passato. Le prime rappresentazioni drammatiche risentono di una primitiva vocazione alla festa popolare e costituiscono momenti ricreativi che accompagnano la vita del paese. In seguito, quando si comprende che attraverso questo “rituale” il paese può vincere il rischio dell’isolamento e della disomogeneità, il teatro assume per Monticchiello un significato nuovo. L’impegno quindi si prepara e matura in un clima di solidarietà civile ed intellettuale. Il teatro diventa un importante sostegno al processo autocritico svolto dalla collettività nel tentativo di riconoscersi e realizzarsi.

L’avventura inizia nel 1967 con la messa in scena dello spettacolo L'Eroina di Monticchiello, testo scritto dal sacerdote poliziano Marcello Del Balio. La comunità cerca di richiamare l’attenzione in una fase di spopolamento a causa della crisi dell’agricoltura. L’esperienza ha successo. L’anno seguente un altro spettacolo. Se queste due prime rappresentazioni – tipici drammi storici recitati in costume, senza alcun aggancio alla vita di oggi – costituiscono niente di più di un momento di festa, di divertimento, di incontro, hanno però il merito di ridestare nei monticchiellesi l’amore per il teatro. Da lì in avanti sono tutti a partecipare alla scrittura dei testi successivi in un confronto-incontro che mette sul tavolo, via via, tematiche dei nostri tempi. Una lunga fase di gestazione in cui si mescolano dimensioni lontane: storie di vita, memorie, echi del dibattito pubblico e politico. Un’esperienza unica, cresciuta nel tempo, che è valsa alla Compagnia due importanti premi lo scorso anno: “Premio Speciale Ubu” e “Premio Hystrio” da parte dell’Associazione nazionale dei critici di teatro. Quest’anno la sintesi dell’intero processo creativo ha portato gli attori-cittadini alla messinscena di un nuovo autodramma: Palla avvelenata. Il riferimento è al gioco che si può fare anche senza una vera e propria palla. Basta avere qualcosa da scambiarsi e passarsi. Una “patata bollente” che, tradotta nel mondo degli adulti si può tradurre come uno “scaricabarile”, un passaggio di consegne, soprattutto di responsabilità. Ne parliamo con Andrea Cresti, il regista dello spettacolo.
 
A cosa fa riferimento il gioco del titolo?
«Nello spettacolo è prima realistico e in seconda battuta diventa parodia e metafora della finanza tossica, con tutti i veleni che porta e trascina con sé, e che sta distruggendo le famiglie, i loro risparmi, i sogni, il futuro dei giovani. È un argomento piuttosto impegnativo per delle persone semplici come lo siamo noi che non hanno un diretto coinvolgimento in queste faccende economiche se non come cittadini. Siamo partiti dalla favola-leggenda del contadino Campriano, da noi già messa in scena anni fa, un racconto medievale trasformato e riletto in chiave moderna ed attualizzato».
 
Avete iniziato da gennaio a discutere i possibili temi, le scalette e infine il copione dello spettacolo. Quali sono stati i temi emersi nella fase di elaborazione?
«Durante i primi stadi del confronto emergeva un dedalo di ansie difficile da decifrare; le preoccupazioni dei giovani ma anche delle precedenti generazioni, con una comune difficoltà nel capire e interpretare il presente, nel trovare prospettive future; un’indistinta sensazione di minaccia; un “nemico invisibile”, interno ed esterno al tempo stesso, che non trova adeguate barriere o figure in grado di opporsi… L’incertezza dei periodi di grandi cambiamenti, unita alla sfiducia verso quelle che un tempo erano considerate figure guida».

Come avete dato forma a tutto questo?
«È nata l’idea di una doppia narrazione, in cui la favola antica si intreccia con la stilizzazione di alcuni ‘modelli’ attuali. La coerenza dello spettacolo si regge su questo patto con il pubblico: tutto quello che si vedrà viaggia su due binari paralleli e compresenti: nello spazio scenico si muovono personaggi di epoche e registri linguistici differenti, che potranno incontrarsi senza contraddizione.
Dopo un prologo in cui tutta la compagnia-comunità è sospesa, in attesa e preda di forze centrifughe e disgreganti, prende vita il doppio binario che farà da cornice alla spettacolo».

Con la voce di un anziano che fa da raccontastorie…
«Sì, un vecchio narra la favola di Campriano, antica novella di tradizione popolare. Con le armi dell’astuzia e dell’invenzione fantastica, una famiglia di contadini poverissimi riesce a prendersi una rivincita su tre speziali che vorrebbero approfittarsi della loro disperazione, restando invece gabbati».
 
In che modo la narrazione favolistica è legata al mondo attuale?
«I tre speziali di Campriano incarnano differenti tipi di deriva del potere. Un potere che nelle sue varie declinazioni è sentito nel complesso sempre piú lontano, minaccioso e screditato, che sia quello politico, tecnico o finanziario».
 .
Ci può descrivere questi tre personaggi, incarnazioni del potere?
«C’è un politico vanesio e cinico; poi un ingegnere sociale/tecnocrate, ossessionato dal perfetto funzionamento della macchina sociale, i cui ingranaggi devono marciare alla perfezione o, in caso di malfunzionamento, essere sostituiti. Di certo non accampare diritti… Infine un grande finanziere che guarda sempre all’orizzonte, predicatore del verbo unico universale, quello del valore monetario, circondato da figli privi di volto e di controllo: figli che portano i nomi di grandi gruppi finanziari e che si abbandonano ad oscuri giochi di fusioni e palle avvelenate, pronti a travolgere chiunque si trovi sul loro cammino…»
 
Conclusione?
«Sarà dunque compito di tutti uscire, aprire le finestre e le porte, guardare in faccia l’occhio del ciclone: si può sperare nella salvezza solo rivendicando la propria dignità di soggetti attivi, vivi, pensanti».
 
Monticchiello (Pienza), dal 21 luglio al 14 agosto, ogni sera alle 21.30, escluso i lunedì 23, 30 luglio e 6 agosto. Tel. 0578 75 51 18

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