Tatuaggi, fagioli e Vangelo
Qui – nel porto più importante del Centroamerica – si può incontrare il popolo vero dei Caraibi, un misto di afroamericani (i garifuna), indigeni e meticci che impedisce ogni vera classificazione etnica. Qui si respira il caldo afoso che non lascia tregua, che ti si appiccica addosso, che inibisce le capacità di reazione e rende atrofizzati i muscoli, che non obbediscono più agli impulsi del cervello. Qui si nota l’irrefrenabile invasione della subcultura consumista dei McDonald’s, Kfc, Pizza Hut e compagnia bella, anzi brutta. Qui si incrociano nelle bettole sopravvissute all’invasione straniera i quarantenni alcolizzati che dimostrano vent’anni di più di quelli che hanno.
A Puerto Cortés vivo un’esperienza che non capita tutti i giorni. Nel febbraio 2012 avevo seguito le notizie del terribile incendio che aveva devastato il carcere di Comayagua, nei pressi di Tegucigalpa, che aveva provocato ben 360 morti. Poi, alla vigilia della mia visita, la catastrofe si è ripetuta a San Pedro Sula, con un bilancio nettamente inferiore – “solo” 13 morti e 75 feriti – semplicemente dovuto ai buoni uffici, coraggiosissimi, di mons. Rómolo Emiliani, chiamato d’urgenza dalle autorità per mediare coi rivoltosi. E oggi sto per entrare nel carcere di Puerto Cortés, una piccola prigione di appena 170 detenuti. «Le stragi di Tegucigalpa e quella recente di San Pedro Sula – mi spiega padre Carmelo Velloso, vincenziano spagnolo, il cappellano per le carceri della diocesi – dimostrano la vetustà e la pericolosità delle prigioni nelle quali le guardie carcerarie entrano pochissimo, il minimo indispensabile, lasciando le prigioni in mano alle mafie: recentemente a San Pedro Sula i detenuti hanno gettato dalla finestra la testa di un detenuto giustiziato. Le condizioni di vita sono subumane, le carceri sono vecchie e non c’è alcuna prospettiva di riabilitazione. Si esce dal carcere peggiorati, sempre o quasi. Qui a Puerto Cortés, ad esempio, il cibo è sempre e solo riso e fagioli, e 40 detenuti dormono ancora per terra».
Il carcere si trova nel centro della città, a ridosso della montagna di container del porto. Dall’esterno la casa circondariale pare quasi carina, con un tocco di colonial, se non fosse che sulla facciata c’è scritto: “Centro penal” e una frase della Lettera agli ebrei: «Ricordatevi dei carcerati, come se foste loro compagni di carcere». Entriamo. Tre guardie iperarmate controllano l’ingresso con aria assonnata. Non c’è nemmeno da firmare il registro, basta la presenza di padre Carmelo, un passepartout. Non ho nemmeno il tempo di capire dove sia arrivato che c’è da nuotare e basta. Scorgo un locale di cinque metri su cinque, sullo sfondo una specie di spaccio, a destra e a manca delle inferriate aperte, sul fondo un’apertura che pare dare su un cortile abbagliante. E tanta gente, un brulichio, e tanti rumori, un tappeto sonoro indigesto, e armadi umani tatuati e volti sdentati, e una mano con venti anelli e un bicipite che espone cicatrici a rilievo impressionanti, e una mano che si tende verso di me. Sollevo lo sguardo: una Tshirt bianca e un rosario al collo, un sorriso senza molti denti, un volto sereno, uno sguardo penetrante: «Bienvenido Miguel, yo soy Carliño».
Comincia così la visita nel carcere di Puerto Cortés, casa circondariale honduregna. Come ogni visita degna del nome, si comincia con il sopralluogo: mi vengono mostrati i gioielli della casa. Dove ci troviamo è il salotto, su cui effettivamente si affaccia una sorta di spaccio, oltre a quattro o cinque celle. Mi fanno entrare nella prima: non è più grande di tre metri scarsi per due e mezzo. Noto delle sorte di loculi – mi ricordano una visita ad Auschwitz – protetti da tendine: sono le “stanze” dei detenuti, incastrate le une nelle altre, fornite talvolta di piccole tv, di libreria, di armadio… Solo che in quei nove metri quadrati vivono venti persone! Le cuccette a livello del pavimento non sono più alte di 30 centimetri. E la notte le guardie chiudono tutti dentro, e non c’è modo di uscire. E il tanfo non è da poco. E alcune cuccette sono occupate da due uomini. E la legge qui è dettata non dalle guardie ma dalle gang. E l’elettricità arriva con fili che solo a guardarli si prende la scossa. E…
Meglio non farsi tante domande, c’è da visitare il cortile. Fantasmagorico. Un centinaio di persone frenetiche, c’è chi tesse delle amache utilizzando sacchetti di plastica, e c’è chi stende i propri panni ad asciugare; c’è chi rade un compagno di prigionia e che ascolta musica da un vecchio registratore; chi gioca a carte puntando soldi e chi invece s’impegna in una partita a scacchi; chi parla fitto fitto con un collega e chi si pettina come se fosse una star; chi abbraccia l’aria e chi un compagno… In un angolo del cortile ci sono i bagni, e lì accanto una cucina in cui è facile che si raggiungano i quaranta gradi. Nella base della torretta di guardia è stata ricavata una cella nella quale il tribunale interno della prigione reclude coloro che trasgrediscono le ferree regole non scritte del codice che regola i rapporti all’interno del carcere.
Poi ci sediamo di fronte ad un tavolo con tanto di tovaglia e fiori freschi (!?!): «Parliamo della Parola di vita», dice Sandra. Che aggiunge subito, dietro mia richiesta, qualcosa della sua vicenda: «La Parola di vita ha cambiato la mia vita. Ogni giorno capisco che Dio è la cosa più importante della mia vita. Da due anni sono qui, mio marito ha scaricato su di me accuse che erano rivolte a lui. Così sono separata dai miei sette figli: quando qualcuno di loro la domenica mi viene a visitare è dura dura. Mi aiutano gli amici della Parola di vita, qui dentro, e ritrovo pace e tranquillità. Dio mi ha dato la vera vita. Chiedo a lui perdono per tutto, ma gli chiedo anche la forza di perdonare mio marito». E conclude: «Quando uscirò sarò un’altra persona: ero superba, uscirò umile. Perché per conoscere la vera vita, per conoscere l’amore, bisogna passare per il dolore più forte».
Carlos, colui che gira sempre con un rosario al collo, è qui dentro per un omicidio. Anche lui vuol dire la sua: «Poco alla volta mi sono avvicinato a Dio, dopo che qui dentro avevano ammazzato un mio amico. E Dio mi assiste. Come nel dicembre scorso, quando mia madre stava morendo e non mi hanno dato il permesso di visitarla. Al posto mio c’è andato padre Carmelo, ma ho sentito che in lui visitavo mia mamma». Carlos è in qualche modo un leader. «Qui si parla molto della Parola di vita – spiega –, ma anche di Chiara Lubich, la fondatrice, e della sua straordinaria forza d’amore. Lei è morta, ma altri ci portano la sua presenza. Le avevo scritto, inviandole un rosario fatto da me. E mi aveva risposto, dicendomi che vivevamo la Parola di vita assieme: mi ricordo di lei e di Chiara Luce Badano quando mi molestano: non reagisco, ma cerco di trasformare quella noia in qualcosa di positivo, in amore».
Ha quattro anni di carcere da scontare ancora, Yessenia, sulla trentina, un viso grazioso, una femminilità modesta: «Quando è morta Chiara Lubich mi sentivo triste, perché lei mi insegnava a perdonare. E dovevo perdonare soprattutto quell’amica che mi aveva denunciata per salvarsi, spedendomi in prigione per traffico di droga. Chiara mi ha fatto sentire che il mio cuore è triste se non perdono». Andrès ha invece due orecchini d’oro da far spavento, e tatuaggi e qualche dente mancante. Non è loquace. «L’importante non è parlare – mi dice a fatica –, ma sorridere agli altri, amarli, fargli festa». Mi stupisco come da un uomo all’apparenza così pericoloso possano uscire parole tanto dolci. Kellingompu, infine, mi racconta come le difficoltà nella prigione siano legate allo spazio esiguo – «manca un po’ d’intimità» – e alla gente che spesso è cattiva sul serio. «Ma quando ci riuniamo, ritroviamo la forza di rinnovarci e di ricominciare ad essere attenti agli altri, a non giudicare, a servire».
Il tempo è scaduto, dobbiamo uscire. Il guardiano apre e chiude le serrature con gran fragore di chiavi. Pare di stare in un film. Mi chiedo chi sia dentro e chi sia fuori. Chi è vivo e chi è morto. Chi ha Dio nel suo cuore e chi no.