Tarquinia, tra presenze e assenze

Sui passi di Tarkovskij, a passeggio per le vie di Tarquinia
tarquinia

Sull’Aurelia, rientrando a Roma da Grosseto, al segnale dell’uscita per Tarquinia, Giuseppe, finora accasciato accanto a me, ha un guizzo di vitalità: « Che dici, ci andiamo?». E s’infervora nel ricordo di un’antica bellissima chiesa – quella della Madonna del parto – dove Tarkovskij ha ambientato una scena suggestiva del suo Nostalghia: a sentir lui, dovrebbe trovarsi proprio nel famoso centro etrusco.

Tarquinia la visiterei volentieri, certo, ma tardi com’è, anche ammesso che quella chiesa si trovi proprio lì, non troveremo tutto chiuso? Ma le luci presepiali della cittadina alta su un colle, palpitanti nella notte incipiente, invitano a cedere, per una volta almeno, all’irrazionale. E sia! Dopo aver parcheggiato la nostra auto davanti al Museo etrusco, ci lanciamo a capofitto nel centro storico, eccitati come bambini che partecipano ad una caccia al tesoro. Ci credo poco che concluderemo qualcosa, ma l’abitato antico con i suoi palazzotti nobiliari, le sue botteghe, le sue stradine ancora animate alla luce calda dei lampioni, è già cosi appagante che non riterrei persa la serata.

 

«Scusi, sa indicarci…». La domanda ottiene garbate ma contrastanti risposte dai tarquiniesi a cui ci rivolgiamo, in quanto la cittadina, cosi ricca di storia e di arte, è stata frequentata da vari registi. Finalmente alcune informazioni sembrano condurre a due chiese, entrambe chiuse al culto: per le chiavi bisogna rivolgersi ai rispettivi custodi, ma si sa, a quest’ora… Senza darcene per inteso corriamo alla più vicina. Eccola! Ne scopriamo appena le belle linee romaniche, compressa com’è tra alti palazzi. Sarà la nostra?

Nel bar qui accanto ci indicano il tale che è in possesso delle chiavi: fortunatamente abita proprio a due passi. Gentilissimo, acconsente a spalancare per noi il portone della chiesa, buia voragine che ci accoglie un po’ emozionati. Ma all’accendersi delle luci, la delusione: le semplici e originali strutture non rivelano nulla di tarkovskiano. Giuseppe, giusto per non andarsene via a bocca asciutta, la fotografa in lungo e in largo. All’uscita poi mi fa: «Andiamo!». «Dove?». «All’altra chiesa». Inutile tergiversare. Ormai lo seguirò, docile, fino alla conclusione di quest’avventura.

Santa Maria di Castello, la seconda presunta chiesa del film, è ai margini dell’abitato, oltre la cerchia medievale delle mura. L’ambiente, deserto e silenzioso, sembra fatto apposta per creare un senso arcano di attesa, in un’atmosfera un po’ surreale. Ed eccola laggiù, dopo una svolta, la pallida facciata forata da un rosone che ci guarda come un occhio. Ah, Tarkovskij, ti abbiamo finalmente!

Ci han detto che la custode abita qui accanto. Sennonché, mentre un cane invisibile comincia ad abbaiare, mi chiedo con quale faccia tosta andiamo a presentarci a quest’ora. Ma Giuseppe, al solito, rompe gli indugi e si slancia su per una scaletta in cima alla quale filtra un po’ di luce.

Per fortuna la signora non si scompone troppo per l’insolita visita né per l’insolita richiesta; solo si scusa perché aprirci la chiesa non servirebbe a nulla: è infatti priva di un impianto di illuminazione. Un po’ per consolare l’amico, un po’ perché ci credo davvero, gli dico: «Forse è meglio cosi. Non ti sembra ancora più bella nel suo mistero inaccessibile? La realtà nuda e cruda, a volte può deludere». Per niente pago di tali filosofiche considerazioni, Giuseppe a Tarquinia – o meglio "Tarquiniovskij", come scherzando ormai la chiamiamo – è deciso a tornare. Ed io? Lo accompagnerò, naturalmente.

 

Arriviamo a Tarquinia in una mattina soleggiata assieme ad altri amici, curiosi di vedere come andrà a finire la storia della chiesa: io sempre dell’idea che difficilmente essa si rivelerà più attraente di quanto non mi sia apparsa nella magia di quella sera; e Giuseppe fermo nella convinzione che i misteri è meglio svelarli, e una volta svelati documentarli, tant’è che è venuto bardato di attrezzature fotografiche ancor più dell’altra volta.

Dopo una sosta al duomo (è il Corpus Domini, e per le vie parate a festa s’avanza, tra suoni di banda e cori infantili, una processione fino al sagrato ricoperto da un tappeto multicolore di petali), ritroviamo la viuzza appartata tra muriccioli cinti d’edera e infine l’armoniosa piazzetta dove Santa Maria di Castello sta in solitudine regale. Ritroviamo pure la gentile custode, che questa volta acconsente a mostrarci il monumento. La chiave stride nella toppa, entriamo e un’esclamazione costernata sfugge a Giuseppe. Bella, maestosa nei suoi archi a sesto acuto, nelle finestrelle ogivali, nelle luci e nelle ombre che si distribuiscono sapientemente nelle navate e sulle tarsie marmoree del pavimento, ma… non è quella!

Ci aggiriamo a lungo nella chiesa, quasi sperando di vedervi sovrapporre da un momento all’altro l’immagine che uno solo di noi ha visto realmente, mentre tutti gli altri l’hanno solo contemplata con i suoi occhi (1).

La gita prosegue con una puntata al Museo e poi alla necropoli di Monterozzi: sì, perché Tarquinia è soprattutto sinonimo di arte e civiltà etrusca. Nella visita al primo, tocca anche a me la mia razione di delusione: i celebri cavalli alati, che ornavano l’Ara della Regina e che speravo di ammirare, sono, ahimè, volati all’estero per una mostra. Solo la discesa nelle tombe col loro universo dai vividi colori, preparato quasi più per lo stupore dei posteri che per chi vi ebbe l’estrema dimora, attenua lo smacco per questo mancato appuntamento.

Così salutiamo Tarquinia: grati per le presenze e per le assenze, per quanto ha rivelato di sé o invece ci ha solamente lasciato indovinare sulla soglia d’un segreto forse ancora più bello della realtà.

 

(1)   In seguito abbiamo identificato la "chiesa di Tarkovskj" nella bellissima cripta di San Pietro a Tuscania, sempre nel Viterbese.

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