Taranto e Venezia, una proposta solidale
L’area a caldo della acciaieria di Genova è ferma da anni, quando cokerie ed altoforno erano in funzione si poteva riconoscere chi vi abitava accanto dal colore scuro dei loro polmoni nelle radiografie: a Genova l’area a caldo si è chiusa dirottando un migliaio di lavoratori alla manutenzione della città, ma se la chiudessimo a Taranto non produrremmo più l’acciaio di buona qualità per la nostra industria meccanica.
La siderurgia di Taranto è quindi un problema nazionale, ma deve esserlo anche la salute dei tarantini: si può produrre acciaio senza avvelenare con poveri sottili, diossina, benzopirene, anidride solforosa ed ossidi di azoto?
La risposta era disponibile già nel 2014 nelle relazioni reperibili sul web di Edo Ronchi, presidente della Fondazione per lo Sviluppo sostenibile e nella presentazione al Senato dell’Ing Mapelli del Politecnico di Milano : la tecnologia del “ferro preridotto” (DRI), elimina le emissioni di diossina e di gas di cokeria e riduce del 88% la anidride solforosa e del 82 % gli ossidi di azoto.
A Taranto oggi l’acciaio si produce dall’ossido di ferro scaricato da navi provenienti dalle miniere dell’Australia e dall’Amazzonia, la sua polvere rossa è trascinata dal vento sulla città: il minerale viene mescolato con calcare formando piccole sfere che sono caricate negli altoforni con il coke, il carbone “cotto” nella batteria di cokerie.
Nell’altoforno il coke assorbe a 1600 gradi centigradi l’ossigeno del minerale, che diventa ghisa, che una volta trasferita nei “convertitori” viene trattata con ossigeno per trasformarla in acciaio, riducendone il tenore di carbonio.
Le cokerie sono responsabili del maggior impatto ambientale, a Genova sono state le prime ad essere fermate, importando coke anziché carbone; il DRI prevede anche la fermata degli altoforni, perché si invia ai convertitori al posto della ghisa il “ferro pre ridotto”.
Questo si ottiene trattando in forni verticali il minerale agglomerato solido a 1200 gradi con idrogeno ed ossido di carbonio, ottenuti da carbone ed acqua o ancor meglio da gas naturale ed acqua: l’idrogeno si combina con l’ossigeno del minerale, trasformandosi in acqua, ed il minerale diventa un prodotto simile alla ghisa.
Il DRI è una tecnologia adottata accanto alle miniere di ferro soprattutto in India ed in Iran, ed in impianti negli USA e Qatar: di ferro preridotto se ne espor tano 75 milioni di tonnellate all’anno con capacità di produzione di 100 milioni: il gas naturale per l’impianto a Taranto potrebbe essere fornito magari a buon prezzo, visto il notevole volume richiesto, dal TAP, il gasdotto che porterà in Puglia gas naturale dal giacimento del Mar Caspio; oppure si potrebbe produrre idrogeno gassificando il combustibile della raffineria di Taranto.
Per realizzare il progetto occorre investire nel nuovo impianto DRI e trovar modo di continuare a far funzionare l’area a caldo durante la sua costruzione: una soluzione è inviare ai convertitori ferro preridotto di importazione e rottame di ferro; così quando la copertura dei depositi di minerale sarà completata, si potrà finalmente respirare aria pulita.
Con questa strategia si risparmierebbero i fondi già stanziati per adeguare le emissioni delle cokerie e degli altoforni, decidendo di non investire in tecnologie superate ma in tecnologie che hanno un futuro, utilizzabili per molti anni, quindi in grado di ripagarsi.
Lo spegnimento degli altoforni è oggi da molti considerato una tragedia, eppure potrebbe rivelarsi un passo nella direzione giusta: l’importante è decidere subito come salvare la produzione di acciaio ed i posti di lavoro non solo a Taranto ma nell’intero comparto industriale metalmeccanico del Paese e trovare subito le risorse per realizzarlo assieme agli industriali disponibili a collaborare.
Questa emergenza, assieme a quella dei danni per il cambiamento climatico a Venezia, Matera ed il resto dell’Italia, richiedono non solo sveltimenti burocratici, ma anche ingenti risorse economiche: queste potrebbero essere trovate chiedendo a chi oggi ha un lavoro, ma avrebbe il diritto al pensionamento anticipato grazie alla legge Quota 100, di rimandare il momento della pensione.
Una scelta solidale che lo stato potrebbe premiare fiscalmente, contribuendo per questi anni al versamento di parte dei loro contributi pensionistici, facendo così lievitare le loro buste paga.
Se Quota 100 fosse applicata unicamente a chi oggi ne ha diritto ed è senza lavoro, per evitare di creare nuove schiere di “esodati”, ipotizzando che costoro siano il venti per cento del totale, il costo della legge, oggi calcolato di 7 miliardi si ridurrebbe ad 1,4.
Se per addolcire l’impatto su tutti gli altri della cancellazione del diritto, lo stato prendesse a suo carico il pagamento della quota di contributi pensionistici da essi versato, il loro netto in busta paga per gli anni rimanenti aumenterebbe del 9 % con un onere per lo stato di 500 milioni all’anno; così ogni anno avremmo a disposizione oltre 5 miliardi da impiegare per azioni solidali.