Taranto e transizione ecologica, un dilemma italiano

Oltre alla sentenza penale del processo su Ambiente svenduto, si attende la sentenza del Consiglio di Stato sulla chiusura dell’area a caldo del grande complesso siderurgico.
Taranto

Passa da Taranto la credibilità della transizione ecologica tanto attesa. Mezzo governo Conte 2 si era recato nella città pugliese per annunciare l’arrivo dell’era dell’idrogeno da fonti rinnovabili e quindi dell’“acciaio verde” che avrebbe reso sostenibile l’attività produttiva di quello che ancora viene definito lo stabilimento siderurgico più grande d’Europa.

Un sito industriale creato dalla mano pubblica (l’Iri) nel 1959 in un periodo storico che collegava, senza remore, la fabbrica con il benessere sociale in una zona del Mezzogiorno dove già esistevano i cantieri navali della Marina Militare. Un porto strategicamente decisivo per il controllo del Mediterraneo come testimonia l’incursione dell’aviazione inglese che nel dicembre del 1940, nel secondo conflitto mondiale, riuscì a mettere fuori uso ben 3 corazzate italiane attraccate a Taranto.

Miracolo economico

La produzione dell’acciaio è strettamente collegata con il miracolo economico della nostra manifattura, collocata di solito dopo la Germania, ma la crisi del mercato ha portato, fin dagli anni ’80,  ad una progressiva cessione di diversi siti del gruppo siderurgico statale alla famiglia Riva che, in piena era delle privatizzazioni, si aggiudicò, nel 1995, il controllo dell’Ilva di Taranto fino al commissariamento, decretato nel 2012, dopo lo scandalo dell’inchiesta penale per disastro ambientale che ha coinvolto non solo gli esponenti della proprietà dei Riva ma una serie di dirigenti e sottoposti nonché funzionari e politici locali.

La sentenza del 31 maggio 2021 emessa dalla Corte d’Assise di Taranto rappresenta solo il primo grado di un processo ma le condanne comminate confermano, per la maggior parte degli imputati, il pesante impianto accusatorio per i reati di “associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale”, “avvelenamento di sostanze alimentari” e “omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro”.

L’ex presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, è colpito, invece, da una condanna a 3 anni e mezzo di prigione per il reato di concussione aggravata, avrebbe cioè fatto pressione a favore della proprietà sull’allora direttore dell’Agenzia per l’ambiente regionale. Lo storico esponente della sinistra ha criticato duramente, la sentenza, trovando ampio spazio sui media, e tuttavia si tratta di una decisione che dovrà passare al giudizio d’appello e della Cassazione. Secondo il nostro ordinamento non è operativa e quindi resta sospeso anche il sequestro disposto dell’area a caldo dell’impianto considerato fonte di grave inquinamento. Anche perché, fin dal 2012, una legge dello Stato ha decretato di interesse nazionale l’attività siderurgica del sito che, nel frattempo, è passata dalla gestione commissariale alla contrastata aggiudicazione, nel 2018, alla multinazionale franco indiana Arcelor Mittal, che ha, poi, deciso di adottare una strategia di uscita concordata con l’introduzione progressiva dello Stato italiano nel capitale della nuova società, ora denominata Acciaierie d’Italia.

La gestione di Arcelor si è rivelata poco incline al dialogo con le istituzioni locali e il territorio, fino a sanzionare con il licenziamento in tronco un dipendente per un parere espresso sui social. Un clima teso di relazioni sindacali secondo il metodo già adottato in ThyssenKrupp Italia dall’amministratrice delegata Lucia Morselli.

Chiusura o svolta decisiva  

Difficile capire lo stile gestionale che adotterà la nuova società a prevalente capitale pubblico perché il futuro appare incerto. Infatti il rischio di chiusura dell’area a caldo (parchi minerali, agglomerato, cokerie, altiforni e acciaierie) è molto concreto in caso di sentenza del Consiglio di Stato chiamato a confermare la decisione del Tribunale amministrativo regionale di Lecce che ha respinto i ricorsi avanzati da Arcelor Mittal e dalla parte dell’Ilva ancora in Amministrazione straordinaria contro un’ordinanza del dicembre 2020 con cui il sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci, ha imposto alla proprietà di individuare e risolvere  le criticità ambientali o, in caso di inadempimento, di procedere con la fermata dell’area a caldo.

La decisione del Consiglio di Stato è attesa da giorni. Il 12 e 13 maggio una delegazione di cittadini tarantini si è recata a Roma per manifestare a favore della chiusura dell’area. Si tratterebbe di un’operazione molto complessa e definitiva data l’estrema difficoltà di una riavvio del ciclo produttivo.

Anche il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, ha detto di attendere tale sentenza per capire la sostenibilità dei progetti di progressiva mitigazione dell’inquinamento ambientale prodotto dall’impianto. Con molto realismo Cingolani, di concerto con i colleghi del neo costituito comitato interministeriale sulla transizione ecologica, non promette l’utilizzo prevalente del combustibile da energie rinnovabili (idrogeno verde) se non come obiettivo finale di un percorso che vede, in tempi brevi il ricorso all’idrogeno blu, cioè prodotto dal gas con un sistema di cattura e stoccaggio della Co2: un cavallo di battaglia dell’Eni, grande società energetica, sotto controllo statale, che già gestisce una grande raffineria a Taranto. Da fonti del modo siderurgico si apprende che Arcelor Mittal sta investendo sulla produzione tramite idrogeno verde nei siti produttivi tedeschi, francesi e spagnoli.

Quello che deciderà il Consiglio di Stato potrebbe rappresentare la vera svolta di una vicenda che, nella sostanza, parte da una domanda ineludibile: posto che il complesso siderurgico tarantino è nocivo per la popolazione residente, è tecnicamente possibile abbattere le sue emissioni mantenendo un livello produttivo adeguato ad una società capace di stare sul mercato?

Esistono, ma sono rimasti in pochi a negare il nesso di causalità tra l’inquinamento e i livelli elevati di malattie tumorali tra i residenti e soprattutto tra i bambini. Il processo “Ambiente svenduto” è partito da evidenze e prove scientifiche. Persiste tuttavia, in molti commenti, il fastidio verso un ecologismo definito irresponsabile e ideologico, che resterebbe indifferente verso il destino di migliaia di lavoratori destinati a restare disoccupati. Dal mondo di Confindustria continuano ad arrivare gli avvertimenti sulla crisi di un intero sistema produttivo costretto a dipendere dalla produzione dell’acciaio dall’estero, paventando il ripetersi del disfacimento conseguente alla chiusura dello stabilimento siderurgico di Bagnoli, accentuato, in questo caso, dalle dimensioni di quello di Taranto, grande più del doppio della città dei due mari.

Le diverse associazioni ambientaliste, e in primis Peacelink guidata da Alessandro Marescotti, fanno notare la diseconomicità di un sito inquinante che perde 100 milioni di euro al mese e non può assicurare alcuna sicurezza ambientale con la produzione richiesta di 8 milioni di tonnellate di acciaio all’anno.

C’è da dire che, teoricamente, il tempo della ricostruzione post Covid si presenterebbe come l’ultima possibilità per una riconversione economica integrale di Taranto, più volte ipotizzata ma mai perseguita seriamente per carenza di fondi. Un banco di prova per il Piano nazionale di ripresa e resilienza che dovrebbe spostare consistenti risorse in ragione dell’obiettivo della transizione ecologia da raggiungere in linea con gli interessi strategici nazionali.

 

 

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