Taranto e la Costituzione. In attesa dei soldi
Il decreto legge firmato,il 3 dicembre, dal presidente Napolitano sull’Ilva è stato varato d’urgenza dal governo Monti per sbloccare la produzione d’acciaio a Taranto, ma non può risolvere immediatamente i gravi problemi ambientali che sono al centro delle indagini penali della magistratura.
Le opere di ammodernamento e bonifica previste richiedono dei tempi tecnici di intervento e la spesa stimata di 4 miliardi di euro a carico del gruppo Riva che viene,perciò, rimesso nella piena disponibilità dell’azienda per poter eseguire un cronogramma sotto il controllo di un garante, nominato dal Consiglio dei Ministri, che riceverà un compenso di 200 mila euro per ognuno dei tre anni in cui è previsto che sarà chiamato ad operare.
Lo Stato non entra, dunque, nella proprietà dell’acciaieria ma si ritaglia un ruolo di vigilanza con il potere di sanzionare pesantemente il mancato adempimento dei lavori. In casi estremi, tuttavia, è prevista l’amministrazione straordinaria e il testo cita quegli articoli 41 e 43 della Costituzione che sono,da tempo, al centro di un dibattito che si rivela,così, nient’affatto teorico. In particolare l’articolo 43 prevede la possibilità dell’esproprio a favore dello Stato, o di comunità di lavoratori e utenti, di imprese contrassegnate dall’interesse generale. Il piano dei lavori si prevede molto impegnativo e oneroso anche solo considerando le dimensioni del parco minerario di deposito delle materie prime che va posto in sicurezza con “la migliore tecnologia disponibile”. Si tratta di un’area di 70 ettari, quasi il doppio della Città del Vaticano per avere un’idea, situata a ridosso del quartiere Tamburi e che andrebbe coperta con degli hangar, allo stesso modo di come avviene,ad esempio, in Corea negli stabilimenti dell’Hyundai.
La Procura della Repubblica di Taranto sembra determinata a far valere l’incostituzionalità del provvedimento dell’esecutivo rendendo palese il conflitto tra i poteri dello Stato. Il giudice per le indagini preliminari, Patrizia Todisco, non ha usato mezzi termini: in un recente provvedimento, con cui ha negato il dissequestro dell’area a caldo della fabbrica, è entrata nel dettaglio della nuova Autorizzazione ambientale (Aia)rilasciata dal ministero dell’ambiente definendola «non fondata su studi o accertamenti tecnico-scientifici» e «con tempi di realizzazione incompatibili con le improcrastinabili esigenze di tutela della salute della popolazione e dei lavoratori». Si tratta della stessa Aia diventata «parte integrante» del decreto legge che ha dichiarato «il funzionamento dello stabilimento una priorità strategica di carattere nazionale».
La vicenda Ilva è destinata, perciò, a non essere rimossa così facilmente. I giudici di Taranto, sostenuti dalle dichiarazioni dell’Associazione nazionale magistrati, sono orientati a sollevare, già dalla prossima udienza del 6 dicembre, il conflitto tra poteri sullo Stato sulla tutela di beni costituzionali come il diritto alla salute. E arrivano notizie di altre procedure di diverse Procure relative ad altri siti gravemente contaminati, come quelli di Gela e Priolo in Sicilia, mettendo in evidenza le troppe contraddizioni vissute in questi anni nel Paese. Il caso Eternit sta facendo scuola.
Quella parte della cittadinanza che si riconosce nei movimenti ambientalisti si ripromette di andare sotto la prefettura portando una copia di «quella Costituzione che pone la salute come bene irrinunciabile e non negoziabile». Il leader nazionale dei Verdi, Angelo Bonelli, consigliere comunale di opposizione a Taranto, ha presentato alla Procura di Taranto «la richiesta di sequestro conservativo dei beni mobili e immobili, titoli dei conti correnti della famiglia Riva e dei soci del Gruppo» a garanzia del principio che «chi inquina deve pagare». Ma, come sanno in molti, presenta una qualche difficoltà intercettare la catena di comando di una realtà industriale che detiene le leve del controllo finanziario in Olanda e Lussemburgo.
Nonostante l’annuncio del decreto che sembra salvare i posti di lavoro, rimane il nodo degli investimenti tecnologici necessari non solo sul piano ambientale ma per competere in una realtà mondiale dove il 45 per cento della produzione dell’acciaio proviene dalla Cina, mentre i siti europei soffrono di sovrapproduzione.
La centralità strategica della siderurgia si coglie nelle dichiarazioni del sottosegretario al ministero dell’economia, Gianfranco Polillo, quando afferma, sull’ Huffington Post Italia, che «se si blocca il comparto, viene giù tutto il resto: dall'automobile, alla meccanica e via dicendo. Dovremo colmare il vuoto di produzione con importazioni dalla Cina, l'India, la Russia, la Germania e la Turchia». Polillo cita, perciò, Antonio Gozzi, presidente di Federacciai di Confindustria, che valuta in 25 miliardi di euro l’esborso necessario a coprire il vuoto di produzione italiana.
Sulla vita dei tarantini si muovono, quindi, queste cifre e strategie che fanno intravedere la necessità di interventi esterni per poter rendere effettive le prescrizioni contenute nel decreto. In sostanza, da dove arriveranno i soldi? Alcuni prevedono il necessario coinvolgimento del Fondo strategico (F2i) controllato dalla Cassa depositi e prestiti (cioè dallo Stato), mentre altri osservatori fanno notare l’interesse di investitori esteri. I cinesi sono invocati in ogni vertenza estrema, dalle auto di Termini Imerese agli autobus dell’Iribus irpina, e non solo per i loro fondi sovrani invitati a finanziare e guadagnare con il nostro debito pubblico.