«…tanto bella che molti la credono antica»
Ritorno dopo un anno al Mann (il Museo archeologico nazionale di Napoli) soprattutto per ammirare la rinnovata sezione egizia. Fuori, sullo scalone rivolto verso la fermata metro Museo, due giovani artisti di strada stanno realizzando sotto lo sguardo incuriosito di turisti e passanti una grande pittura. Mi avvicino e, trovata la giusta prospettiva, vedo delinearsi sulla gradinata la testa colossale di un cavallo. Che cosa sarà mai? Potrei informarmi, ma rinuncio per la fretta di infilarmi nella fila alla biglietteria.
Ed ecco qui la spiegazione. Ad accogliere i visitatori, nell’atrio d’ingresso, è proprio l’originale in bronzo di quello stesso cavallo. Giganteggia lì su un moderno supporto dal novembre 2016, dopo un restauro che esalta la bellezza di un’opera che, già nelle collezioni museali dal 1809, era rimasta fino ai nostri giorni stranamente negletta, quasi dimenticata.
Giro intorno alla testa colossale per apprezzarla sotto varie visuali, calamitato dalla vitalità selvaggia che essa emana dalle orecchie drizzate, dagli occhi che sembrano gettare lampi, dalle froge palpitanti, dalla bocca fremente cui manca solo un orlo di spuma per sembrar vera, dalle vene guizzanti sulla nobile testa, dalla possente muscolatura del collo.
Merita di essere conosciuta la storia secolare di questo bronzo, cui sono legate tante leggende popolari. Secondo una di esse, raccolta anche dalla scrittrice Matilde Serao, faceva parte di un monumento equestre eretto in una piazzetta del centro storico napoletano, là dove sorgeva, prima di essere demolita per far spazio all’attuale cattedrale, l’antica basilica Stefania. Grazie alle arti magiche di Virgilio, che nel Medioevo aveva fama più di negromante che di poeta – un quasi patrono di Napoli prima di san Gennaro! –, il bronzo aveva la virtù di guarire i cavalli affetti da malattie che gli giravano attorno. Con l’avvento del cristianesimo, tuttavia, per evitare un culto idolatrico, il cavallo venne fuso – a parte la testa – per ricavare le campane per il nuovo duomo.
Il primo a vederci chiaro sulle origini del reperto fu Giorgio Vasari, che nella seconda edizione delle sue Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori (1565) l’attribuì a Donatello, il grande scultore, pittore e orafo fiorentino che seppe unire idealità classica a vivace realismo. Nonostante l’autorevolezza del personaggio, nei secoli successivi prevalse fra gli studiosi la convinzione che si trattasse di un capolavoro ellenistico. Del resto lo stesso Vasari aveva definito la testa «tanto bella che molti la credono antica».
Solo negli anni Settanta del secolo scorso gli studi effettuati col suo team dal professor Francesco Scaglioti hanno dato ragione al celebre pittore, architetto e storico dell’arte aretino, sulla base di documenti originali. Da essi sappiamo che a Donatello, intento a lavorare a Padova al monumento equestre del Gattamelata, fu commissionato un gruppo scultoreo analogo, destinato ad ornare l’arco trionfale del Maschio Angioino; gruppo mai ultimato sia per la morte del committente, il re Alfonso d’Aragona (1458), sia per quella dello stesso artista, fino all’ultimo oberato di lavori (1466). Nel 1471 la testa equina – tutto ciò che restava del cavallo – fu inviata a Napoli da Lorenzo de’ Medici quale dono all’amico Diomede I Carafa, e da questi collocata nel cortile del suo palazzo in centro città, a imitazione della testa di cavallo ellenistica nel giardino di palazzo Medici Riccardi a Firenze.
Ammirata da Goethe e da altri illustri viaggiatori del Grand Tour, la scultura – nota anche come Testa Carafa – rimase in loco fino ai primi dell’Ottocento, quando l’ultimo principe Carafa di Colubrano la donò al Museo archeologico nazionale come scultura classica del III secolo a. C., sostituendo l’originale con una copia in terracotta ancora oggi visibile sulla parete di fondo del cortile sotto lo stemma dei d’Aragona.
E accompagnato, appunto, da un corteo storico in costumi aragonesi, il 19 novembre 2016 il bronzo è andato a collocarsi dove ora si trova, primo benvenuto ai visitatori del Mann e rappresentante di quel Rinascimento che segnò il revival dell’arte e della cultura classiche.
Occorre dire che non è l’unica effigie equina presente nel Museo, anche se la più bella in assoluto. Il Mann sfoggia infatti due celebri gruppi equestri da Ercolano, dedicati ai Marco Nonio Balbo padre e figlio, questi però in marmo. E nascosti da qualche parte – probabilmente nei depositi, insieme a centinaia di frammenti appartenenti ad una quadriga bronzea, sempre da Ercolano – altre due teste equine e un cavallo intero: il cosiddetto Cavallo Mazzocchi, ricavato però dalla fusione, in epoca borbonica, di un cospicuo numero di pezzi che non si era riusciti ad assemblare.
Sempre a proposito di cavalli: contrariamente a quello che ci si sarebbe aspettati da una città già intitolata a Partenope, uno dei primi simboli di Napoli non è stato una sirena ma il cavallo, un cavallo rampante. Usato nella monetazione posteriore a Federico II (metà del XIII secolo), è ancor oggi presente sull’emblema della città metropolitana di Napoli. E un cavallo rampante era anche l’effigie del Calcio Napoli prima delle clamorose sconfitte in campionato che hanno visto da allora il nobile animale trasformarsi in umile “ciuccio”.