Svizzera, referendum sui caccia da guerra

Democrazia diretta e referendum in Svizzera. I cittadini della confederazione elvetica sono chiamati a votare il 27 settembre sull’acquisto o meno di aerei da caccia di fabbricazione straniera. Già nel 2014 vinsero i No. I termini della questione nella storia del Paese storicamente neutrale e sede della Croce Rossa  
Svizzera arerei guerra foto Hoppe/dpa via AP

Svizzera e armi. Il 27 settembre prossimo la popolazione svizzera sarà chiamata alle urne per decidere, fra l’altro, se finanziare l’acquisto di nuovi aerei da combattimento. Il costo previsto è di 6 miliardi di franchi, ma se si
contemplano anche le spese d’esercizio e di manutenzione lievita fino a 24 miliardi. Il numero dei jet da acquisire sarà stabilito solo dopo la votazione, qualora vincesse il “sì”; i modelli presi in considerazione sono comunque
quattro: l’Eurofighter, l’F/A-18 Super Hornet, il Rafale e il Patriot, tutti di produzione straniera.

Nel 2014 la maggioranza della popolazione elvetica disse no all’acquisto dei velivoli da combattimento Gripen (3,1 miliardi di franchi); ora i fautori di un esercito più forte tornano alla carica e anche il Consiglio federale ritiene che la Svizzera, per proteggere la popolazione, debba rinnovare la propria aviazione militare (di per sé già sovradimensionata se paragonata ad esempio a quella austriaca). La Confederazione si manterrebbe così nell’onda della generale corsa agli armamenti.

A chi conviene questa grossa operazione di compravendita di macchine da guerra? Certamente alle lobby delle armi. Non all’economia locale e non all’ambiente.

La Svizzera è un Paese pacifico, neutrale, che ha saputo tenersi fuori da entrambe le guerre mondiali e ovviamente nessuno desidera che questa tendenza cambi in futuro. Il contrasto che divide la popolazione, in ultima analisi, deriva da due diverse visioni del mondo e dei rapporti tra le persone e i popoli: gli uni, ligi al vecchio motto «si vis pacem, para bellum», «se vuoi la pace, prepara la guerra», sono convinti che la minaccia di uno schieramento muscoloso dissuada l’eventuale nemico dallo scatenare un attacco; gli altri invece credono che quello strumento sia troppo caro, inefficace e anzi nocivo.

La fondazione dell’aviazione militare svizzera risale al 1914, all’inizio della Prima guerra mondiale, e venne promossa da un’iniziativa privata (il Consiglio federale non era favorevole). Il numero dei velivoli crebbe poi notevolmente nei decenni successivi. Nei primi mesi della Seconda guerra mondiale gli aerei elvetici si scontrarono alcune volte con velivoli stranieri – soprattutto tedeschi – che attraversarono lo spazio aereo della Confederazione, probabilmente per sbaglio. Nel giugno del 1940, temendo che quegli sconfinamenti fossero provocazioni e quegli scontri potessero essere interpretati come pretesti per attaccare la Svizzera, il generale Henri Guisan proibì tali combattimenti.

Negli anni Sessanta scoppiò poi un grande scandalo per l’acquisto di cento Mirage III (alla fine ne vennero forniti unicamente 57). Negli anni successivi la flotta aerea fu potenziata con cacciabombardieri sempre più potenti: Pilatus, Tiger F-5, F/A-18. Fino alla votazione che, nel 2014, bocciò l’acquisto dei Gripen.

Ma davvero per un Paese come la Svizzera – con una democrazia e un’economia tanto consolidate – è utile o necessaria una flotta aerea per difendersi? E davvero si può immaginare una minaccia bellica con un minimo di realismo?

In effetti, verso la fine della Seconda guerra mondiale si registrarono alcuni bombardamenti sul suolo svizzero – soprattutto di provenienza americana – che provocarono numerose vittime; probabilmente furono causati da errori o da sviste dei piloti (quante volte succede!). Fatto sta che in quelle occasioni l’aviazione militare svizzera non fu in grado di reagire in alcun modo per proteggere la popolazione.

Sono invece stati purtroppo numerosi, anche negli ultimi anni, gli incidenti in cui hanno perso la vita cittadini svizzeri, in genere i piloti stessi e i passeggeri. Dal 1941 ci sono stati più di 400 incidenti che hanno coinvolto aerei ed elicotteri militari svizzeri, causando il decesso di oltre 350 persone.

L’attentato alle Torri Gemelle del 2001, avvenuto in un Paese armatissimo che non ha saputo intercettare i terroristi, fa poi decisamente dubitare che aerei da combattimento – concepiti essenzialmente per lanciare missili micidiali – possano difendere la popolazione di un paese piccolo come la Svizzera da un ipotetico attacco terroristico o bellico. Inoltre un’eventuale aggressione al Paese alpino si svolgerebbe oggi con modalità assai diverse da quelle conosciute dalla storia; in Occidente le guerre sono per lo più “commerciali” o “informatiche”.

E quindi? Gli ultimi sondaggi danno in vantaggio i favorevoli all’acquisto; ma non è ancora detta l’ultima parola.

Una voce autorevole è quella di papa Francesco: «Nel mondo di oggi, dove milioni di bambini e famiglie vivono in condizioni disumane, i soldi spesi e le fortune guadagnate per fabbricare, ammodernare, mantenere e vendere le armi, sempre più distruttive, sono un attentato continuo che grida al cielo».

La corsa agli armamenti, in fondo in fondo, è alimentata da un’irrazionale paura dell’altro; e al contempo alimenta tale paura, in un fatale circolo vizioso. Forse, in un mondo sempre più interconnesso e interdipendente, è davvero ora di superare questa paura e di rompere questo circolo vizioso. La pace non è solo dissuasione dal fare la guerra (sarebbe una sconfitta); la pace è molto di più, è uno stile di vita, è una realtà concreta, una conquista, che va cercata e costruita con un investimento di forze: ce lo chiede un’umanità degna del suo nome.

La Svizzera deve il proprio benessere anche al merito di non aver mai participato a guerre, dopo quella civile del 1847; contempla al suo interno in modo ammirevole culture, lingue e confessioni diverse; è la “patria” della Croce Rossa; offre spesso il proprio servizio di diplomazia per la pace; vanta una storia unica al mondo in materia di asilo e di protezione dei profughi; ha saputo integrare serenamente persone provenienti da molti Paesi. Orbene, perché non potrebbe cominciare proprio la Svizzera a dare il buon esempio?

Dopotutto la guerra non la vuole nessuno e, se la pace non è solo un sentimento, allora dobbiamo cominciare ad agire secondo una logica nuova, più razionale e umana, ispirata al principio «si vis pacem para pacem». «Se quanto si spende per le guerre, si spendesse per rimuoverne le cause», scrisse Igino Giordani, «si avrebbe un accrescimento immenso di benessere, di pace, di civiltà: un accrescimento di vita».

Il 27 settembre i cittadini svizzeri avranno la possibilità di fare un passo nella direzione giusta.

 

 

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