Superare la logica dei campi nomadi
La loro presenza suscita generalmente timore e ostilità, crea insicurezza, dà fastidio. Sono circa 150 mila i rom e i sinti che vivono oggi in Italia. 70 mila sono cittadini italiani e 80 mila provengono dai Balcani, in particolare dalla Romania. Comunemente li conosciamo come zingari o nomadi. Rappresentano meno dello 0,3 per cento della popolazione, una delle percentuali più basse d’Europa, e il loro numero totale è di gran lunga inferiore a quello di molti altri Stati, come Germania, Francia, Spagna. Pregiudizi e stereotipi fanno dello zingaro un girovago, che non accetta di lavorare, preferendo vivere di reati o di espedienti e, nel migliore dei casi, di elemosina. È una convinzione diffusa, questa, alimentata da casi reali di devianza e criminalità, di cui la cronaca si è occupata anche di recente. Furti, scippi, incidenti provocati dall’abuso di alcol, risse, di cui a pagare nei giudizi e nelle misure repressive non è solo il singolo, ma intere comunità. I rapporti tra nomadi e il resto della popolazione, i cosiddetti sedentari – gagi, come dicono loro – è da sempre estremamente difficile. Di loro, in fondo, si sa poco. Si ignora la cultura e la storia, come la persecuzione sotto il regime nazista che portò all’olocausto di oltre mezzo milione di zingari durante la seconda guerra mondiale. I sinti e i rom sono da più di 500 anni qui in mezzo a noi e non hanno mai sperimentato, nel concreto della loro vita, la possibilità di fidarsi del gagio, sostiene mons. Pietro Gabella, direttore nazionale dell’Ufficio per la Pastorale dei rom e dei sinti della Chiesa italiana, che li conosce bene perché da anni vive a Brescia in un campo nomadi accanto a famiglie sinti. Il loro futuro è sempre stato nelle mani dei sedentari. E poi l’esperienza che fanno da quando sono bambini è quella di veder arrivare le forze del l’ordine, e la più bella frase che si sentono dire è: dovete sparire!. Riguardo alle politiche d’integrazione, il nostro Paese è in ritardo di almeno 25 anni rispetto al resto d’Europa: un caso evidente è la questione abitativa. I rom che arrivano in Italia dai Balcani, ad esempio, hanno esperienza di case in muratura e di una vita organizzata in piccoli nuclei: fuori luogo, dunque, la soluzione dei campi da 500 o più individui a cui nel nostro Paese, tranne alcune eccezioni, si pensa ancora. Campi che diventano scuole di devianza minorile e che il Consiglio d’Europa considera luoghi di segregazione razziale. Eppure soltanto il 18 maggio scorso Comune di Roma, Prefettura e Ministero dell’Interno hanno siglato il Patto per Roma sicura, che prevede, tra l’altro, l’allestimento entro un anno di quattro campi per 4-5 mila rom nell’estrema periferia della città. Un progetto che non piace ai nomadi, circa 10 mila in tutto nella capitale, e su cui sono intervenute con una lettera aperta organizzazioni che, a Roma e in altre città italiane, sono a fianco di rom e sinti e conoscono bene i campi, i villaggi e i tanti non luoghi in cui vivono i rom. Comunità di Sant’Egidio, Caritas, Arci Solidarietà, Comunità di Capodarco, Jesuit Refugee Service, Servizio Rifugiati e Migranti della Conferenza episcopale italiana scrivono: Siamo cittadini di questa metropoli e anche noi crediamo che la sicurezza e la legalità siano un diritto per tutti; anche per rom e sinti. Ma dire che l’illegalità a Roma e nelle grandi città sia un problema di rom, immigrati e prostitute ci sembra fuorviante . Ritengono perciò che la proposta di risolvere il problema rom costruendo mega campi controllati per 1.000-1.500 persone fuori del Raccordo costituisca una palese violazione dei diritti umani. Secondo queste associazioni, è grave sia la proposta in sé, sia il messaggio che contiene e cioè: accanto ai rom e ai sinti non si può vivere. I nomadi a Roma sono ormai stanziali, sebbene costretti a continui sgomberi, e nella grande maggioranza aspirano ad una soluzione abitativa stabile. Lo dimostrano le centinaia di famiglie in lista d’attesa nelle graduatorie per l’assegnazione di case popolari. Il progetto contenuto nel Patto per la sicurezza – per il quale sono stati già stanziati 15 milioni di euro -, risulta, secondo il cartello delle associazioni, esattamente il contrario di quello che il Comune di Roma ha fatto in questi anni con le politiche di scolarizzazione e inclusione sociale. Sui mega campi non concordano neanche vari organismi dell’Unione europea e del Consiglio d’Europa, e tanto meno la Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza, che, nel suo Terzo rapporto sull’Italia del dicembre 2005, sollecitava già le autorità italiane ad affrontare la questione in stretta collaborazione con le comunità stesse, con l’obiettivo sul lungo periodo dell’eliminazione dei campi nomadi. Ma cosa ne pensa l’assessore alle politiche sociali del Comune di Roma?. Scopo dei villaggi – affer ma Raffaela Milano – è far fronte a situazioni di emergenza determinata da insediamenti spontanei e di fortuna che mettono a repentaglio la sicurezza dei cittadini, ma anche di quanti abitano le baracche abusive. Si tratta poi di assicurare ai rom l’accesso ad una rete di servizi sociali possibili solo in un campo attrezzato. L’assessore Milano è però d’accordo con il cartello delle associazioni e con l’Opera Nomadi che la vera questione è il superamento della stessa idea di campo. Come risolvere allora il problema abitativo? Casa in muratura e delocalizzazione, cioè un piccolo numero di appartamenti contigui da destinare ad una sola famiglia allargata, sono i due punti chiave della soluzione secondo Massimo Converso, presidente nazionale dell’Opera Nomadi. Propone: L’Italia è piena di migliaia di piccoli centri urbani ormai spopolati, si tratta di individuare questi comuni e di delocalizzare i rom attraverso un programma sostenuto dal governo . Non c’è resistenza ad una certa integrazione da parte dei rom, sostiene ancora Converso, senza dover rinunciare però ad aspetti della cultura e delle tradizioni zingare, come matrimoni, funerali, educazione dei figli. Se comunque i rapporti rimangono difficili, e problematico il riconoscimento delle reciproche identità, con quale atteggiamento la Chiesa nel suo insieme guarda a questa gente? Le paure e vari fatti negativi portano le comunità ecclesiali a nutrire molte riserve, ma ci sono anche alcuni sacerdoti, religiosi, religiose e laici ad aver scelto di vivere all’interno del mondo dei rom e dei sinti. Dio ha deposto una ricchezza al loro interno a vantaggio di tutta la Chiesa e per tutta l’umanità – afferma mons. Gabella -, ma bisogna essere capaci di guardare le persone con l’occhio di Dio. E cita un esempio: Se muore uno tra i miei sinti, dove vivo io, si brucia tutto e si ricomincia da capo. Se io li guardo col mio occhio, dico: ma che spreconi, chiedono l’elemosina e poi buttano tutto. Se invece li guardo con gli occhi di Dio, quello è un modo perché non ci sia nessuno che divenga più ricco di altri in modo stabile e abbia la possibilità di dominare. Insomma, conclude mons. Gabella, anche gli zingari portano con sé brani di verità, come tutte le culture. Solo aprendosi a quest’idea qualcosa di nuovo potrà finalmente accadere.