Suoni Farnesiani a Caprarola

Un concerto a Caprarola, in provincia di Viterbo, dedicato alle esplorazioni della musica contemporanea di Avidi Lumi, un gruppo di giovani musicisti e compositori che scommettono sulla ricerca.

Una felice occasione di ripresa dei concerti dal vivo, dopo questo lungo periodo di lockdown. L’ Accademia degli Sfaccendati ci ha regalato una perla musicale proposta nella cornice meravigliosa di Palazzo Farnese a Caprarola (Viterbo).

Protagonisti tre compositori – Marco De Martino, Giacinto Scelsi, Emiliano Turazzi – e Avidi Lumi, un gruppo di giovani musicisti, tecnici del suono, compositori che stanno scommettendo sul proprio talento, sulla serietà della ricerca nel suono e nell’immaginare un mondo che continua a meravigliarsi delle invenzioni sonore.

Ho avuto la fortuna di incontrarli durante una pausa prove qualche giorno prima del concerto. La loro base si trova nel quartiere Pietralata di Roma, e l’impressione è stata quella di una sorta di sovrapposizione dell’immaginario pasoliniano di periferia ad un metropolitano studio-prove di ricerca musicale di alto livello. Ho trovato, in questi “musicisti di vita”, l’impronta dell’impegno etico e artistico che il poeta ci ha lasciato! Il loro Avidi Lumi è un felice progetto che accende il panorama della musica contemporanea in Italia.

Torniamo al concerto. Pierre Boulez (1925-2016) ha affermato: «Non è possibile una visione reale di un opera musicale, la cui percezione è sempre parziale. La sintesi non può farsi che dopo, virtualmente». Un virtuale che è anch’esso misteriosamente reale. Come spiegare, infatti, la spinta emozionale che la musica ascoltata, in questo caso dieci giorni fa, continua a vibrare attraverso la memoria?

Il concerto è aperto da Veglia di Marco De Martino, una prima esecuzione assoluta, per percussioni e risonatori, opera concepita e scritta nel periodo del lockdown.

Un brano che utilizza le possibilità foniche create dalla pressione esercitata sulla pelle di una grancassa e sulla interazione di questi suoni armonici con i feedback acustici (o effetti larsen) suscitati dalla “farcitura” di microfoni nell’interno della grancassa. Sospeso sopra di essa, un gong  microfonato e fatto suonare dalle mani e dall’alito che l’esecutore immetteva nel cavo interno del gong.

Qui viene fuori una parola chiave: presenza. Presenza, intesa come coinvolgimento totale del corpo e della mente del musicista che interpreta, che suona il suo strumento. Ne parleremo anche per gli altri brani. Il bravo percussionista Ivan Liuzzo è riuscito, oltre ad eseguire bene la partitura, a tenere alta la tensione del nostro ascolto in un brano di circa 18 minuti. Che sono volati. De Martino – che durante l’esecuzione ha pure manovrato i live electronics al mixer – mostra una notevole sicurezza del proprio linguaggio e nel modellare il tempo musicale. La musica e specialmente questa musica, dove gli elementi del suono sono così elaborati (o se vogliamo aperti a significati nuovi) in modo che attraverso la mediazione del compositore possiamo sperimentare un ambiente di suono consapevole. Cosa vuol dire? Quella presenza di cui sopra chiama – e cosi è successo per tutta l’ora e più del concerto – ascolto (altra parola chiave della nostra serata). Ascolto serio, profondo, e  quando lo sperimenti, è musica! Anch’esso lavora nella memoria come diceva Boulez prima. Ci ricordiamo quel tipo preciso di ascolto.

Il secondo brano in programma, anch’esso world premiere, è di Emiliano Turazzi, Studio per clarinetto solo (composto nel 2018) ed è parte di un progetto di composizione più ampio. Infatti questa forma musicale, lo Studio, è sempre motivo di stimolo per  tutti i compositori della storia della musica occidentale. Anche qui l’ottima Alice Cortegiani è riuscita ad incantarci con suoni venuti dal vuoto e con polifonie (tra l’altro di difficile esecuzione) appena accennate, su di una sorta di bordone nei suoni gravi che sembrava durare all’infinito. Pezzo di grande magia sonora e anche qui di cura scenica (grazie anche al disegno luci di Ivan Liuzzo e ai tecnici Andrea Civati e Gabriele Corti) nell’esecuzione che ha concentrato il pubblico su ogni singolo respiro.

Ko-Lho per flauto e clarinetto – con Elena D’Alò e Alice Cortegiani – del 1966 di Giacinto Scelsi (1905-1988) è parte della musica del XX secolo ormai “storica”. Un compositore poco frequentato forse perchè troppo de-strutturato in un ‘900 che ha fatto nel  suo percorso estetico monumenti alla struttura. Un brano dell’opera di Scelsi che ci introduce bene nella ricerca per il fenomeno acustico, sezionato sia nell’uso di intonazioni non convenzionali (quarti di tono etc.) insieme all’elettronica, sia nell’influsso delle culture orientali nella percezione del suono che è la cifra estetica del visionario compositore.

Una caratteristica notevole del concerto (visto nella sua interezza) è stata la coerenza del programma. Come se i tre compositori dicessero la stessa parola ma in modo completamente diverso. Merito dovuto anche per la regia del concerto – il disegno acustico, la messa in scena sonora, la localizzazione degli interpreti – affidata a Edoardo Maria Bellucci. Insomma l’unità di senso si è percepita. Aspetto questo non assoluto, poiché un concerto può e deve anche creare opposti, differenziazioni. Ma quando senti una unità interna – forse nemmeno  cercata – allora appare come una felice sorpresa.

La suggestione della cultura orientale nel suono di Scelsi, mi permette di fare un’altra considerazione su di un elemento in funzione della  coerenza di cui parlavamo sopra. Il  compositore coreano Isang Yun (1917-1995) diceva: «Gli asiatici non avevano né armonia né contrappunto e quindi il suono doveva essere ottenuto in modo completamente diverso per dargli vita. Da ciò dipendono le molte differenziazioni, gli innumerevoli tipi di glissando e di vibrato». Questo tipo di lavoro sul materiale sonoro che abbiamo sentito, da De Martino a Turazzi passando per Scelsi ha permesso sì una coerenza nel programma ma ha anche offerto una possibilità di «far coesistere Oriente ed Occidente in musica».

Venendo al terzo brano  Lo sguardo fermo, senza sforzo per flauto basso amplificato e amplificatore di Emiliano Turazzi, composto nel 2012.

Qui il percorso sonoro – ma anche fisico della flautista Elena D’Alò che si muove da un lato all’altro della scena – svolto quasi direi dentro il flauto basso che interagisce con i feedback elaborati al mixer, ci ipnotizza in un ascolto che diventa spazio vitale. Cito dalle note di libretto scritte  da Gabriele Manca per  un lavoro discografico di Turazzi: «La lunga stringa di suono…diventa un luogo da abitare, una condizione da accogliere e da accettare, senza delimitazioni prestabilite e coattive». Una definizione appropriata all’estetica di Turazzi, cosi elegantemente libera e curiosa e nello stesso tempo attenta all’ estrema concentrazione.

Abbiamo valutato alcune parole: presenza, ascolto, coerenza.

Ultima considerazione personale e finale: ho trovato in questo concerto un richiamo alla natura. Le invenzioni foniche sullo strumento fisico ( il classico flauto o clarinetto etc.)  fatte di suoni armonici, multifonici e l’elaborazione elettroacustica ci hanno restituito, alla fine,  un rapporto col suono fisico ancora più puro, meno mediato dalla cultura e dai significati convenzionali, tanto da rivelarci quanto il suono in sé sia già carico di significato, espressione vitale. Fare esperienza partendo da questo dato in realtà produce relazione. E il pubblico lo ha sperimentato.

 

 

 

 

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