Il suo nome era Konte
Aveva un nome facile da pronunciare, nonostante fosse del Gambia. Si chiamava Konte e aveva poco più di 20 anni. La telefonata che avevo ricevuto da Rosy, presidente dell’Avo, mi scuoteva mentre raccontava con voce greve.
Konte aveva un tumore ed era in fase terminale. Era stato portato dall’ ospedale di Foggia all’hospice di Torremaggiore, cittadina a 7 chilometri dalla mia. Rosy sapeva che l’associazione di cui ero da poco presidente aveva tra le finalità l’integrazione dei popoli, la fraternità e ne facevano parte anche tre ragazzi del Senegal, che vivevano a Casa Sankara, una comunità di emigranti sul territorio di San Severo.
Chiamo Filomena, che abitava a Torremaggiore, una carissima amica con cui avevo condiviso tante iniziative nel sociale, proponendole di andare insieme all’hospice. Era una bella giornata di sole quella mattina, entrando nel cortile della struttura mi ritornavano in mente i tanti giorni in cui la mia presenza là era quotidiana. Mio fratello Michele era stato nello stesso luogo qualche anno prima. Entriamo e il silenzio ci assale, sembrava che anche il rumore dei nostri passi fosse fastidioso.
Un colpo al cuore quando realizzo che Konte stava nella stanza “tulipano”, la stessa di mio fratello. Inevitabilmente le tante emozioni mi destabilizzano. Filomena lo capisce subito, poiché anche lei ricordava quella stanza; veniva anche lei a trovare mio fratello. Ci guardiamo negli occhi, scopriamo di essere bisognose di appoggiarci l’una all’altra, entriamo. La tenda chiusa non perfettamente, lasciava entrare un raggio di sole.
Salutiamo Konte che era sveglio e guardava la tv. A vederlo non si coglieva la gravità se non fosse per il gonfiore eccessivo che aveva alle gambe scoperte. Gli sorridiamo e con la mano lo salutiamo, lui ci guarda, sorride ricambia il saluto.
Al primo colpo d’occhio si vedeva il disordine, sia il comodino che il tavolo erano pieni di tante cose: frutta, acqua, dolci, taralli, panini, bustine con posate di plastica, tovaglioli… non vedevo alcun spazio e chiaramente questo visibile miscuglio di cose dava sì l’idea che tanti andavano a trovarlo, ma anche del caos che si creava poiché Konte non credo potesse poi mangiarli.
Mentre cercavamo io e Filomena di creare un rapporto con tutte le difficoltà relative alla lingua, arriva il pranzo. Poteva scegliere se mangiare pasta e fagioli o pasta asciutta. Porto i due contenitori per far scegliere, senza parlare, guardandoci negli occhi, non sapevamo noi l’inglese e lui l’italiano.
Filomena recupera dei tovaglioli, lo aiutiamo a sollevare un pò il letto e sul carrello portavivande apriamo la pasta asciutta, la forchetta il bicchiere con l’acqua per essere sì di aiuto, ma anche per dare al ragazzo tutto l’amore di mamme. E mentre Konte mangia, diamo una sistemazione alla stanza, eliminando le cose inutili e mettendo a portata di mano per Konte, altre.
La notizia passa subito di bocca in bocca e tanti si prodigano a fargli visita. Si capiva tuttavia che questa c’era, mancava forse la giusta attenzione, quell’intelligenza fondamentale per essere veramente d’aiuto. Il primario dell’hospice avendo colto questo via vai, pensa giustamente ad un incontro con tutte le realtà che giravano intorno a Konte come l’Avo, i giovani della parrocchia di un paese vicino, i genitori del prete dell’hospice che di solito facevano la notte, i focolarini, le associazioni.
In attesa che si concretizzi questo incontro, vado con il senegalese Hervè, socio dell’associazione di cui entrambi facevamo parte che si chiama Sunuterra (Sunu = nostra), perché lui possa parlare con Konte nel loro dialetto pur non essendo della stessa nazione ma confinanti. Parlano tanto poi chiamano la mamma di Konte ed insieme fanno una preghiera prima di andar via.
Le volontarie dell’Avo avevano già messo in contatto Konte con la sua famiglia con videochiamata. Una volta, dopo essere andata con Hervè, mi sono trovata anche io e li ho visti e salutati. Mi commuoveva quella storia, pensavo che la sua mamma e le sorelle potessero sentirsi consolate, sapendo che questo figlio che cercava fortuna in terra lontana, fosse almeno accudito in quel difficile momento.
Dopo la provvidenziale riunione si misero a fuoco i veri bisogni, cosa servisse veramente. Così una giovane volontaria quando andava gli metteva la musica che preferiva dal suo cellulare. Un’altra gli aveva insegnato a giocare a carte. Qualcuna andava per l’ora di pranzo e di cena. E poi don Federico, prete giovanissimo, con i suoi genitori si organizzava per fare le notti.
Noi focolarini e dell’Associazione, avevamo messo a fuoco quale aiuto dare dopo. Il medico apprezzò molto questo e partì subito una raccolta fondi per riportare Konte nella sua terra.
Per via della grave malattia, un giorno arrivò a Konte il desiderato permesso di soggiorno. Un pezzo di carta che nelle mani del ragazzo era, vita, libertà, sogno realizzato, così potente da dargli la forza di alzarsi e scappare dall’hospice. Attraversava felice la pineta che è fuori dall’hospice correndo e, dietro di lui, il don che lo rincorreva implorandolo di fermarsi. Konte cadde a terra stremato, negli occhi un misto di felicità e disperazione, così ce lo raccontò il don. Quella notte fu lui ad ospitarlo ed il mattino seguente venne riportato in hospice. Morì dopo pochi giorni.
Intanto da più città della Capitanata la storia di Konte veniva conosciuta e in tanti donavano per riportare la salma nella sua terra. I nostri amici africani organizzarono il rimpatrio ed anche il rituale funebre della loro cultura islamica, come il lavaggio della salma. Andammo in tanti al cimitero di Foggia, ignorando quali fossero le procedure, eravamo là solo per amore.
Oltre ad aver raccolto la somma utile per il rimpatrio, avanzava anche una bella sommetta che poi abbiamo inviato alla famiglia con cui i nostri amici dell’Avo continuavano ad avere un rapporto. Sembrava realizzato un pò il sogno di Konte, quello di andare a cercare una vita migliore, dare un benessere alla famiglia, che tanto si aspettava da lui. Quella somma arrivata era l’impegno che Konte aveva a cuore per testimoniare ai suoi cari che li avrebbe aiutati economicamente, senza immaginare minimamente quale sarebbe stato il prezzo.
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