Sullo sgombero all’Esquilino
Faccio fatica a trovare le parole giuste per commentare il violento sgombero avvenuto all’Esquilino, nel centro di Roma, alle spese di 400 rifugiati etiopi ed eritrei. Fatica e rabbia, perché quelle persone le ho viste e in quei posti sono entrato.
La storia è sotto gli occhi di tutti. Il palazzone di Via Curtatone, occupato dal 2013, è stato al centro di un blitz con tanto di agenti in tenuta antisommossa che sono arrivati ad usare, verso chi era sceso nella vicina Piazza Indipendenza, perfino gli idranti. «La nostra équipe di Medici senza Frontiere ha trattato in poche ore 13 persone, la maggior parte donne – ci spiegano a Msf –, e abbiamo chiamato le ambulanze per cinque persone con ferite e lacerazioni causate dai metodi coercitivi usati dalle forze dell’ordine».
Sconcertante e intollerabile! Per la modalità –come sottolinea con forza anche una nota della Caritas romana – sproporzionata e violenta. Per essere avvenuto in presenza di nuclei familiari, di donne e di bambini, nei cui occhi resterà per sempre il terrore di essere stati stanati e rastrellati come criminali, ferita indelebile che marchierà il loro futuro e che si aggiunge ai traumi già vissuti da questa gente.
E poi: che bisogno c’era di autorizzare un attacco da guerriglia urbana quando quelle persone abitavano lì da tempo, molti dei quali provenienti da Baobab, un Centro Sociale molto noto a Roma? Dove erano gli enti locali, a cominciare dal Comune di Roma, negli ultimi anni?
Possibile che non si riesca a gestire – certamente con parametri di legalità, ma nel pieno rispetto dei diritti umani –, un flusso stabile e prevedibile di richiedenti asilo? Difficile non stigmatizzare le incapacità amministrative nella gestione del denaro destinato a rifugiati e a strutture di accoglienza. Fondi già stanziati, ma ci spiegate con chiarezza dove sono andati a finire? Lo spettro di Mafia Capitale è ancora vicino, e ci piacerebbe saperlo.
Ed infine, ce lo vogliamo ricordare che molte di quelle persone che trattiamo con gli idranti sono le stesse a cui negli anni è stata concessa accoglienza perché in fuga da Paesi come l’Eritrea, dove la violazione dei diritti umani è sistematica e il regime dittatoriale così duro da essere definito “uno dei Paesi meno liberi al mondo”? Nel diritto internazionale “rifugiato” non è un migrante generico, ma esprime lo status di protezione internazionale riconosciuto per chi ha dovuto abbandonare il proprio Paese per gravissimi motivi. È un diritto sancito dalla Convenzione di Ginevra del 1951, e l’Italia l’ho ha firmato. Perché – dopo averli accolti agli sbarchi e pianto per i sommersi in quell’immenso cimitero azzurro che è il Mediterraneo – ci scordiamo che la battaglia per la vita di chi ce l’ha fatta è appena agli inizi?
Da chi è composto questo popolo di disperati delle case occupate? Lavorando come pediatra -insieme ad altri sanitari- in strutture pubbliche dedicate ai figli dei migranti senza diritto alla sanità, ho l’onore di curare molti di quei bambini.
Fa impressione vederli descritti come una massa indistinta e perfino pericolosa. Forse, se conoscessero le storie di Aya, Bedraddine, Fatima, Samir, Afya, Kadin e Gamal – nomi di fantasia, ovvio – e dei loro genitori, se avessero assaporato la loro injera, la focaccia fatta col teff, se avessero anche una sola volta letto nei loro occhi gli abissi di dolore e di paure sperimentate nel viaggio migratorio ed insieme la loro immensa voglia di ricominciare a vivere forse, anche coloro che ritengono giusto levarseli dai piedi fino a spezzargli un braccio, si vergognerebbero.
Quando permettiamo ai rifugiati di vivere in condizioni sub-umane, tollerando per anni luoghi fatiscenti come i palazzi occupati o certi campi Rom, non solo lediamo i minimi diritti umani, ma pratichiamo la politica più ottusa per la sicurezza delle nostre città. Perché il problema esiste, ovviamente. Ma quando dentro metropoli come Roma continueremo a permettere l’esistenza di universi paralleli senza praticare serie politiche di inclusione (i ragazzi di strada, i senza fissa dimora, gli abitanti di case occupate o di certi campi Rom, spesso privi di assistenza sanitaria e in condizioni igieniche disastrose), la coesione sociale inesorabilmente finirà per spezzarsi, la tensione aumenterà, il conflitto diventerà la regola.
Inoltre, quando sentiamo le storie di violenza legate a migranti e giustamente li deprechiamo, non dimentichiamo quanto il fallimento del progetto migratorio, le interminabili attese in hot-spot superaffollati, la mancata inclusione ed infine il confinamento in ghetti ed inferni abitativi –come è accaduto anche in Italia – possa alimentare e contribuire a far crescere dei fuorilegge. Spesso «è il labirinto che crea il Minotauro», non il contrario (Foucault, 1996).
Francesco Gesualdi, saggista e attivista per la pace e allievo storico di don Milani, sostiene che «ci sono due modi di affrontare la questione immigrati: avere come obiettivo il toglierceli dai piedi (…) o volerli aiutare a vivere». Certe reazioni a vicende come questa dimostrano che la prima opzione, una mentalità neo-coloniale e razzista, non sia mai sopita.
Ma quelle persone dimenticano che il fenomeno migratorio non nasce per caso, ma è figlio di un colonialismo europeo predone e saccheggiatore di uomini e di risorse, ancora oggi in ottima salute. I migranti, soprattutto quelli provenienti dall’Africa, sono la nostra Ombra e finché non ci decideremo a saldare il debito, la nostra Fortezza Europa si sentirà sempre sotto assedio.
Le tante storie positive di inclusione e di reciprocità dicono che è difficile, ma non impossibile convivere in pace. La soluzione non è a buon mercato, ma certamente non sta nei respingimenti e nell’alimentare la paura. Giusto pretendere legalità, adesione alla nostre leggi e conoscenza della Costituzione. Ma senza dotarci noi di nuovi strumenti – curiosità transculturale, apertura verso la diversità ed il dialogo interreligioso, minime conoscenze di antropologia culturale e soprattutto gratitudine verso chi sceglie la nostra terra per rinascere e ci regala cibi, universi, lingue, nomi, culture, tradizioni, modalità di accudimento che mai avremmo conosciuto se non girando il mondo; e soprattutto sarà in Italia che farà crescere i propri bambini – tutto sarà inutilmente più complicato.
Senza una chiave di lettura che contenga tutto il drammatico spessore della Storia d’Europa e dei suoi feroci rapporti coloniali con l’Africa, ed insieme sia capace di nuovi saperi transculturali, temo che anche un episodio così drammatico sarà presto archiviato come l’ennesimo incidente di percorso. Ci fermeremo a deprecare gli idranti e plaudire alla carezza del poliziotto per la donna eritrea (e menomale!), senza accorgerci che quelle donne di Piazza Indipendenza, inginocchiate davanti alle forze dell’ordine con le braccia alzate per evitare lo sgombero, arrese ed inermi, sono molto di più di un episodio, sono una pagina di storia con cui fare i conti.
Chiudo con un testo di Erri De Luca: «Abbiamo amato l’Odissea, Moby Dick, Robinson Crusoe/ i viaggi di Sindbad e di Conrad/ siamo stati dalla parte dei corsari e dei rivoluzionari. Cosa ci fa difetto per non stare con gli acrobati di oggi/ saltatori di fili spinati e di deserti, accatastati in viaggio nelle camere a gas delle stive/ in celle frigorifere, in container, legati ai semiassi di autocarri? Cosa ci manca per un applauso in cuore/ per un caffè corretto al portatore di suo padre in spalla e di suo figlio in braccio/ portato via dalle città di Troia, svuotate dalle fiamme? Benedetto il viaggio che vi porta, il Mare Rosso che vi lascia uscire, l’onore che ci fate bussando alla finestra».