Sulle tracce di Hera

Storia avventurosa di uno dei santuari più celebri dell’antichità, dedicato alla regina dell’Olimpo (ora in trasferta in Cina)

 

Che ci facevano lì, allo sbocco del fiume Sele nel golfo di Salerno, quei due tipi allampanati (lui più di lei) in mezzo agli acquitrini, alle esalazioni malariche e ai nugoli di zanzare? Incuranti di essere sorvegliati a vista dalla polizia (erano infatti dichiarati antifascisti), quando non ragionavano di Strabone, il grande geografo greco di età augustea, o dei flussi colonizzatori venuti dall’Ellade, picconavano il terreno della riva sinistra, incontrando la resistenza di pietre ben connesse e vedendo affiorare altro che cocci. Non erano forse, quelle lastre d’arenaria estratte con estrema cautela tanto risultavano friabili, preziose opere scultoree dell’età greca arcaica? E non appartenevano, le fondazioni di quegli edifici, al celebre santuario di Hera Argiva segnalato da Strabone, appunto, e da Plinio a cinquanta stadi di distanza (nove chilometri) dalla colonia achea di Poseidonia, divenuta poi la lucana Paistom e infine la romana Paestum?

Siamo nel terzo decennio degli anni Trenta e i due archeologi che, utilizzando unicamente fondi privati, si dedicavano con passione a scavi che avrebbero aperto una pagina nuova nella storia dell’arte magno-greca, erano la napoletana Paola Zancani Montuoro e il piemontese Umberto Zanotti Bianco, filantropo che aveva sposato la causa delle classi disagiate del Sud e fondato la Società Magna Grecia. Entrambi da annoverare tra i pionieri dell’archeologia magno-greca e italica per le importanti scoperte effettuate anche in Sicilia e Calabria, in controtendenza rispetto all’archeologia ufficiale, quella sostenuta dal regime fascista, che esaltava la romanità.

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Gli eccezionali risultati delle loro ricerche all’Heraion salentino, condotte tra mille difficoltà fino al 1962, sono ora sotto gli occhi di tutti nel Museo di Paestum: primeggiano tra gli altri reperti le circa quaranta lastre architettoniche che ornavano il tempio maggiore e un altro edificio sacro del VI secolo a. C. con la raffigurazione di episodi della presa di Troia e di vari altri miti. Lastre che costituiscono, con altre settanta rinvenute in anni successivi, il più spettacolare e omogeneo complesso figurato dell’arcaismo greco che ci sia pervenuto.

Nuove indagini condotte dal 1987 ad oggi dal Dipartimento di Studi umanistici dell’Università “Federico II” di Napoli hanno ulteriormente approfondito la conoscenza di un santuario la cui origine Strabone fa risalire a Giasone, capo della mitica spedizione alla ricerca del vello d’oro sulla nave Argo (di qui l’attributo di Argiva alla divinità titolare): come dire che i fondatori vennero da oltremare, seguendo le rotte della colonizzazione greca nel bacino del Mediterraneo durante l’VIII secolo a. C.

Circondato da un recinto sacro, il complesso comprendeva il tempio maggiore, sacelli dedicati a divinità minori, altari, edifici per l’accoglienza dei pellegrini e donari (thesauròi) di diverse città magno-greche, se non anche della Grecia stessa. Nella sua lunga vita, protrattasi fino ad età adrianea, non poche furono le vicissitudini del santuario: sappiamo che, insieme a Poseidonia, fu teatro di scontro quando Alessandro il Molosso, re d’Epiro e nipote del grande Macedone, sostenne i greci d’Italia ribellatisi al dominio lucano (332 a. C); che fu depredato dai pirati cilici, danneggiato dal terremoto del 63 a. C. e infine dall’eruzione del Vesuvio del 79 d. C.

A questo punto ormai nulla più sopravviveva del passato splendore. Tuttavia il culto della gelosa consorte di Zeus, patrona del matrimonio, della fedeltà coniugale e del parto, ma anche divinità della guerra e dell’oltretomba, non cessò del tutto; tramontò invece tra la fine del III e gli inizi del IV secolo per l’affermarsi, nella piana del Sele, della nuova religione cristiana. Più tardi la malaria dovuta all’impaludamento e le incursioni dei saraceni costrinsero gli abitanti della devastata Paestum a rifugiarsi sulle alture vicine e a fondare sulle propaggini del monte Calpazio il nuovo abitato medievale di Capaccio. Là, oltre la metà del X secolo, sarebbe sorta una cattedrale dedicata alla Vergine Maria, oggi santuario della veneratissima Madonna del Granato. Nella sua statua lignea, che la raffigura col Bambino e una melagrana in mano, sopravvive l’immagine di Hera, la “grande dea madre”.

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E oggi? Ricca di vegetazione palustre, l’area archeologica, conserva ancora il fascino dell’ambiente naturale all’epoca delle prime scoperte, esclusa la malaria. E se è vero che essa offre alla vista solo edifici a livello di fondazione e nulla di monumentale, in compenso nell’attiguo “Museo narrante” ricavato in una casa colonica, grazie ai calchi dei reperti originali, alle tante statuette votive e ai supporti multimediali, è possibile rivivere la complessa storia e le trasformazioni di un luogo sacro celebratissimo nell’antichità. “Poteva”, a dire il vero, perché la prossimità del fiume Sele ha giocato più volte, l’ultima nel 2015, un tiro mancino al Museo, inondandolo e rendendolo inagibile. Ora però che i lavori di ristrutturazione sembrano quasi conclusi, il prof. Gabriel Zuchtriegel, direttore del parco archeologico di Paestum, assicura: «Quest’anno, grazie al contributo dell’associazione “Amici di Paestum”, garantiremo un giorno di apertura al mese. Questo però sarà solo l’inizio: per noi è di primaria importanza rivitalizzare questo luogo mitico, aprirlo alle scuole e agli altri visitatori. Stiamo lavorando a questo».

Nel frattempo la statua in marmo di Hera proveniente dal santuario è volata in Cina assieme ad altre 134 opere pestane, tra cui una perfetta riproduzione della Tomba del Tuffatore, per una mostra itinerante – la prima dedicata a Paestum fuori d’Europa –, che sta riscuotendo grande successo di pubblico (fino a luglio del 2020).

 

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