Sulla via Francigena
Il pellegrinaggio ha segnato la nascita dell'Europa. Le sue vie sono ancora lì, da riscoprire. Un'opportunità in tempi di crisi.
Per secoli le strade dell’Europa medioevale, disagevoli, insicure, spesso infangate, furono calpestate da migliaia di pellegrini. Le loro orme finirono per formare un tesoro impalpabile, ma di valore inestimabile: migliaia e migliaia d’impronte di calzari, cancellate dal vento, indurite dal sole, inghiottite dalla terra inzuppata dalla pioggia, sepolte sotto centimetri o metri di neve, schiacciate da altre impronte ancora.
È anche da esse che scaturisce l’Europa moderna. Da quel patrimonio di orme. Goethe, il grande poeta tedesco, diceva che la coscienza d’Europa è nata sulle vie di pellegrinaggio.
E le vie sono ancora lì: ora si cerca di rintracciarne il percorso sulle mappe, di disseppellirle da dove giacciono, sotto gli strati d’asfalto delle autostrade e delle statali che, col passare del tempo hanno ricalcato il loro tracciato.
Si cerca di recuperare quei percorsi col loro bagaglio di segni, emblemi e memorie: i passaggi dove i pellegrini transitavano quasi sempre a piedi, o a dorso di mulo per qualche tratta, o su un carro trainato da buoi o a cavallo, raramente; i guadi lungo i fiumi; gli ostelli dove bivaccavano, le pievi e i monasteri dove veneravano i sepolcri dei santi e le reliquie dei martiri, e dove anche sostavano per rifocillare l’animo e l’anima.
S’era messo in moto un fatto sociale nel medioevo, che richiedeva ai cristiani d’essere generosi e di soccorrere i fratelli pellegrini che si fermavano sulla soglia della loro abitazione: perché la carità era uno dei valori fondamentali del pellegrinaggio.
Su quelle strade ha marciato la fede cristiana che, ben si sa, è un fatto intimo, di cuore, ma che non disdegna mai di coinvolgere le braccia, le labbra, lo sguardo e anche i piedi. Perchè sembra proprio che senza i fatti esteriori sia cosa morta, la fede, come scriveva Giacomo nella sua celebre Lettera.
E poi, che la fede sia un cammino, un santo viaggio, lo si sa; Gesù continua ad invitare chi crede in lui, a seguirlo sulla sua strada: «Se qualcuno vuol venire dietro a me…».
È sullo sfondo potente del cammino dell’anima che si fa anche cammino reale, che s’inserisce il grandioso fenomeno medioevale dei pellegrinaggi. Che assumeva tipicamente due forme: devozionale o penitenziale. Il primo, che risale già ai tempi della Chiesa primitiva, consisteva nel recarsi in un luogo santo per cercare d’attuare una profonda conversione; il secondo si compiva invece, assieme all’elemosina, per espiare una colpa molto grave, come un assassinio, un adulterio o una frode (quanta gente ci sarebbe oggi per strada, in cammino!).
Sulle strade s’incontravano pellegrini d’ogni estrazione sociale e di ogni età. Il poeta Petrarca ha immortalato con versi sublimi il vecchietto che si mette in viaggio in una tensione che lo protende già verso il cielo: «Movesi il vecchierel canuto e stanco dal dolce loco ov’ha sua età fornita… e viene a Roma seguendo ‘l desio, per mirar la sembianza di Colui ch’ancor lassù nel ciel vedere spera».
Si viaggiava dai 20 ai 25 chilometri al giorno, e la meta era generalmente o la Terra santa, o Roma – dove c’è la tomba di Pietro –, o Santiago de Compostela, dove la tradizione vuole che sia la tomba dell’apostolo Giacomo. Ci volevano mesi, se non anni, per compiere un pellegrinaggio.
Dante scrive che ai suoi tempi la parola “pellegrino” indicava solo il viaggiatore diretto a Santiago; “palmiere” indicava invece chi andava a Gerusalemme, perché nell’oasi di Gerico prendeva una “palma”, simbolo di chi si recava in Terra santa; mentre “romeo” era chi viaggiava verso Roma.
I pellegrini, nel paesaggio d’allora, si notavano: indossavano un pesante mantello per ripararsi dalle intemperie, tenevano in mano un lungo bastone, detto “bordone”, portavano a spalla la bisaccia e alla cintola un zucca vuota che faceva da borraccia; sul copricapo o sul mantello c’erano gli emblemi del santuario verso il quale viaggiavano: la conchiglia per Compostela, la croce per Gerusalemme, la chiave per San Pietro a Roma. Affrontavano viaggi pieni di pericoli: per gli animali selvaggi, la natura inclemente, i malviventi e i briganti. Non a caso i pellegrini facevano testamento prima di mettersi in cammino.
Ora, da un po’ di anni, sulla scia del grande successo ottenuto con il recupero dei percorsi europei che portavano al santuario di Santiago de Compostela, sono partite molte attività volte a valorizzare quel patrimonio di cultura, storia e geografia della fede, che è la via Francigena. O via romea, che dir si voglia. Essa segna il percorso di pellegrinaggio che da Canterbury, in Inghilterra, portava a Roma e costituiva, con tutte le sue variazioni, una delle più importanti arterie di comunicazione europee in epoca medioevale.
S’è potuto ricostruire questo itinerario sulla base di varie fonti e soprattutto del documento lasciato da un certo Sigerico, arcivescovo di Canterbury, che si prese la briga, nel lontano 994, di buttar giù in un diario le tappe che toccò durante il viaggio di ritorno da Roma alla sua diocesi. Sulla via Francigena, appunto.
Il Consiglio d’Europa, accogliendo le richieste di varie realtà locali, ha dichiarato la via Francigena “Itinerario culturale europeo”, come già lo è il cammino di Santiago de Compostela. La via Francigena proveniva dalla Francia, varcava le Alpi e gli Appennini, attraversava molte città e campagne dell’Italia centro settentrionale prima di giungere a Roma.
Lungo il suo percorso sorgevano vari ospitali per dare ospizio ai pellegrini. Con le crociate divenne il tragitto dei cavalieri e dei pellegrini diretti in Terra santa. Ovviamente quella via non era esclusiva proprietà dei viaggiatori dello spirito, volti all’incontro con Dio; sulla stessa strada bazzicavano avventurieri e briganti, si muovevano i germi di malattie letali, mercanti intessevano scambi e commerci d’ogni genere, girovagavano compagnie di teatranti, nobili e cavalieri galoppavano e a volte s’azzuffavano, eserciti marciavano nei loro spostamenti. Un crogiolo di culture e d’idee s’incrociava e si mescolava all’andare e al tornare dei pellegrini, in un’Europa che già allora avvertiva la voglia e la necessità d’essere unita.
La riscoperta via Francigena rimane lì, invitante come allora. Richiama i piedi con il suo profumo, rimescola nel sangue la voglia di camminare. Con il suo patrimonio monumentale e artistico, può diventare un itinerario culturale, segno dell’identità europea nelle sue diversità e nella sua unitarietà.
Rimane lì, anche come traccia d’una radice comune, capace d’evocare storia e fede. E ancora rimane lì, perenne metafora della vita e dell’homo viator, a ricordare che in questo soggiorno terrestre siamo tutti miseri viandanti e temporanei pellegrini, in marcia verso la meta celeste.
Ma rimane lì anche per essere, ancora una volta, “camminata”. La via Francigena, come ogni strada, brama soprattutto d’essere calpestata. Magari con tanto di scarpe da trekking; con sulle spalle zaini, tenda e in mano una mappa dettagliata, e perché no?, l’ormai immancabile Gps.
In questo tempo di crisi, quando molti non possono permettersi una vacanza, può proporsi come un’alternativa del tutto degna. Lasciare da parte per un po’ confort e sicurezza per immergersi nella storia antica, sulle strade percorse dai nostri padri e madri, viandanti del medioevo.
Per toccare con mano una roccia dove s’era posta la loro mano, per bere all’acqua d’una sorgente alla quale s’erano dissetati; per pregare nella quiete d’una pieve montana e riflettere all’ombra d’un boschetto di faggi, come avevano fatto allora. Per inabissarsi in silenzio in quel cielo così spesso trascurato, che è la nostra anima.
La via Francigena in Italia
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