Sulla strada degli italiani

Da Axum a Wukro, lungo la via costruita dai nostri connazionali alla fine del secolo scorso. La visita a una regione, il Tigrè, che tra scenari straordinari e siti archeologici ancora non esplorati, mostra alcune delle civiltà più antiche d’Africa

Passeggiata serale ad Axum. Un ragazzo mi invita pure a entrare a casa sua: beh, dire casa è forse eccessivo, perché si tratta di un edificio in muratura, questo sì, ma quel che scorgo nell’interno oscuro e fumoso è una cucina nera di caligine e un locale comune dove si mangia, si fanno i compiti, si gioca e dove, a quanto intuisco, dormono pure i tre figli maschi, mentre le tre bambine dormono coi genitori in un anfratto che definire stanza è troppo. Non c’è traccia di armadi, solo un certo numero di chiodi servono per appendere gli indumenti. La serata si conclude a mangiar tutti injera, cioè quelle grandi crêpe di tef, il cereale locale più diffuso, assai spugnose peraltro, aspre e appena un po’ acide, che sono il piatto nazionale, strappandone un brandello e raccogliendo con esso – nessuna forchetta, per favore! – un po’ di ragù piccantissimo, un po’ farinoso a dire il vero, ma comunque appetitosissimo. Axum, la semplice bellezza Axum è stata il centro dell’omonimo regno, che sorse con l’era cristiana e che declinò nel VII secolo. Parco settentrionale delle stele, ecco il “bestione”, la più alta e grande e pesante stele monolitica mai scolpita, crollata nel momento stesso della sua erezione: la Stele 1 era alta ben 33 metri. Si abbatté sulla enorme pietra della Tomba di Nefas Mawcha. C’è poi la più priapesca stele, quella di Roma, la seconda per altezza (24,6 metri) cioè la Stele 2, restituita dall’Italia all’Etiopia nel 2005, dopo lunghe trattative e il soggiorno in piazza Capena per 68 anni. Ha il carisma del comando. Accanto la Stele 3, quella del Re Ezana (23 metri), l’unica a non essere mai crollata al suolo, anche se sorretta da un paio di gru. Henry Salt, il viaggiatore britannico, nel 1805 la definì «il monumento più perfetto e ammirevole». Adua, il campo di battaglia di Maryam Avanziamo da Axum verso il Tigrè. Greggi e mandrie, uomini e donne in cammino, asini oberati di fieno, camion stracarichi, coltivazioni ordinate ma povere. Adua, dove i soldati italiani persero nel 1896 la battaglia decisiva contro i partigiani tigrini. Case quasi mai terminate, fabbrichette scalcinate, marmifici polverosi. Una semplice croce: “Ai caduti. Adua 1896. Non dobbiamo dimenticarti”. Sulla “Montagna di Maria”, Maryam Sewito, si svolse la battaglia: mi immagino i nostri soldati – iperequipaggiati rispetto ai loro avversari, ma smarriti e dispersi per il comando labile, per l’ambiente sconosciuto e per la popolazione ostile –, soccombere dinanzi a una truppa di meno numerosi e poco armati indemoniati, che però difendevano la loro terra e il loro onore ferito. Yeha, la civiltà che ha preceduto Axum Yeha è espressione della civiltà che ha preceduto quella axumita. Salendo una scalinata sconnessa e ripida, si giunge a un antichissimo tempio a base quadrangolare dedicato al Sole, mentre poco distante da qui sembra si ergessero due altri templi dedicati alla Luna e alla Terra, ovviamente. Il luogo è incantevole, con la piana che si estende a 360 gradi, coronata da un’altrettanto affascinante linea di orizzonte composta da montagne ardite e frastagliate. Il tempio stupisce per la qualità della costruzione e dei perfetti blocchi di granito sovrapposti. Le colonne a base quadrata stupiscono, perché insolite da queste parti. Dinanzi al tempio si ergono due stele che paiono dei menhir, o grosse tavole da surf, piantate in verticale. E tutt’attorno un assurdo cimitero di tombe vecchie e nuove.

Debre Damo, l’alpinista e il monastero Dopo cento e cento curve si arriva al monastero di Debre Damo. L’accesso consiste in una… fune di canapa sospesa nel vuoto per 20 metri. Il monaco guardiano cala una seconda corda, questa volta di cuoio (meglio non controllare la tenuta delle giunture!) per sicurezza. Sul ripiano sommitale una trentina di costruzioni ospitano 150 monaci e diaconi. La chiesa del monastero è la più antica d’Africa: penombra odorosa di ceri e di urina, di aria rarefatta per i tremila metri raggiunti ma stantia di capre e bestiame. Salgo sulla piccola e tozza torre campanaria, percorrendo una scala di legno che sta in piedi solo per il concorso della grazia divina e del caso. La visione sull’altipiano è straordinaria, scorgo pochi monaci, è l’ora del pranzo. Il bestiame è padrone degli spazi, ma non del tempo. Adigrat, ai piedi della lunga discesa Si sale vertiginosamente verso i 3010 metri del Passo di Alequà, che si sentono nel cuore. Le enormi falesie a strapiombo che si allungano per chilometri e chilometri, sovrastando i terrazzamenti di risaie,  danno i brividi. Ecco dei calanchi di roccia che paiono un enorme pettine sospeso coi denti per aria. A Maialikti la strada si fa ardita, gli italiani erano ingegneri provetti. Mugulat è un villaggio quasi sul passo, i fiori profumano l’aria, qualche finestra viene dipinta di verde o azzurro. Kisadaleka, appena oltre il passo, dà il via a una discesa da brividi verso Adigrat che fa ben presto la sua apparizione nel fondo della valle. La piazza principale si pavesa con qualche edificio più appariscente, un’eredità della colonizzazione italiana, superfici lisce per edifici in stile neoclassico-fascista. Negash, la prima moschea d’Africa (ma chissà se è vero) Sulla strada che da Adigrat scende verso Wukro, all’altezza di un piccolo centro abitato, sembra che sia stata eretta la prima moschea del continente africano. Mi aspetto una moschea “africana”, ma mi ritrovo in un luogo arabeggiante. Con tanto di imam saudita in visita ai luoghi. In realtà la moschea è oggi un grande cantiere che coinvolge anche due antichi mausolei, con profusione di candidi marmi di Carrara e di Bodrum, pagati da sauditi e turchi. Si sta anche costruendo una madrasa. Non mancano degli uffici di assistenza per i più poveri, «che siano musulmani o cristiani o animisti», mi viene spiegato. Nel Tigrè l’85% della popolazione è cristiana, e solo il 5% musulmana. Sink’at’a, i bimbi del Tigrè I bimbi del Tigrè sono unici. Sfacciati ma deliziosi, arditi ma affascinanti, e milioni tutti uguali e ciascuno unico. Corrono come matti, appena passa la nostra auto li vedo sbucare dai più remoti anfratti della campagna, li vedo, quasi imbarazzato, che chiedono qualcosa, facendo gli occhi dolci o pietosi e mostrando i loro abiti sporchi e bucati. A tutti mi verrebbe da dar un nichelino o una penna, ma non posso farlo, a meno di portarmi dietro una cassetta di banconote di piccolo taglio. E allora comincio a dar loro la mano, a guardarli negli occhi, a pensare che ognuno di loro è una persona unica e irripetibile, amata in modo esclusivo dal Creatore. Medhane Alem Kesho, la sorpresa di una chiesa rupestre Dopo Sink’at’a ci orientiamo verso il gruppo di tre chiese conosciute come Takatisfi. Medhane Alem Kesho è la più antica del Tigrè. Saliamo per una vasta piastra di roccia che pare un’enorme bolla di pietra. Eccola, la chiesa, come una parete scolpita nella roccia, con le sue colonne abbozzate, con gli affreschi esterni geometrici e figurativi, con quella porta d’accesso al nartece che pare un’anticipazione gotica e romanica nel contempo, forse semplicemente rupestre, per una naturale apertura nella roccia. La luce della sera penetra dalle aperture della facciata creando atmosfere di sogno e di mistica, che evidenziano sì la sommarietà del lavoro sulle pareti ma anche la meticolosa cesellatura dei soffitti di pietra a cassettoni, che rappresentano croci di ogni tipo, persino svastiche. Wukro, il rito del caffè Siamo arrivati. Wukro è baricentro sull’asse Nord-Sud del Tigrè. Ci concediamo al termine del viaggio il rito del caffè, puro arabica. Profumo intenso dell’erba gettata sul pavimento. Negli angoli del bar à café sono posizionati dei tavolini bassi e dei tradizionali puff rivestiti di pelle ovina o bovina. Gli avventori sono quasi tutti uomini, ma a preparare il caffè sono due giovani ragazze etiopi, flessuose come betulle. Si riempiono le tazzine per tre volte con il contenuto della stessa cuccuma. Le ragazze abbrustoliscono e tostano i grani, prima di passarli sotto il naso dei clienti. Quindi li macinano prima di versarli nella caffettiera piena d’acqua, che viene riscaldata su un braciere a legna. Infine servono il caffè, dopo aver disposto sui tavolini degli incensieri. Sintesi di cultura, quella tigrina.

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