Sul confine Italia-Slovenia
Sono caduti i confini tra Italia e Slovenia ; La Slovenia è in Schengen dal 21 dicembre: sembra impossibile, ma è così; forse a chi vive nel resto d’Italia parrà poca cosa ma per noi, in questo estremo lembo del nordest, è un avvenimento davvero epocale che, piaccia o no, cambierà la nostra vita sotto molti aspetti (non solo economici); è sparita una linea divisoria che per sessant’anni (prima fra Italia e Jugoslavia e dal 1991 tra Italia e Slovenia) ha segnato, talvolta in maniera lacerante, la vita degli abitanti di queste terre, al di qua e al di là. Non a caso qualcuno ha detto che la caduta dei confini è un segno dei tempi; qualcosa di impensabile solo dieci anni fa. Poi, l’allargamento dell’Unione europea ad est, l’ingresso di nuovi Stati tra cui la Slovenia, la meravigliosa cerimonia del primo maggio 2004 sul piazzale della Transalpina a Gorizia (un piazzale nuovamente unito, come lo sono tutte le piazze del mondo, dopo decenni di rigida divisione); ed ora l’abolizione dei controlli, il libero transito… È scomparso ciò che dalla fine degli anni Quaranta è stata la parte meridionale della cortina di ferro, come la definì Winston Churchill, simbolo visibilissimo della netta divisione dell’Europa. Un confine che comunque nel corso degli anni, grazie al mutato quadro internazionale ed al miglioramento dei rapporti italo-jugoslavi, aveva visto stemperarsi molte delle iniziali tensioni, tanto da venir considerato il più aperto d’Europa. E che i rapporti italo-jugoslavi siano fortunatamente progrediti con il passare del tempo lo possono testimoniare anche semplici fatti della nostra piccola storia personale, che inevitabilmente si intreccia con la grande storia di popoli e nazioni. Nel 1953, al porto di Capodistria, nell’estenuante attesa di controlli confinari minuziosi ed umilianti, ricordo chiaramente mia madre preoccupatissima che raccomandava a me – avevo allora quattro anni – di stare buono e di non fare capricci al momento del nostro turno d’ispezione, quasi che anche le ingenue proteste di un bambino potessero indurre l’arcigna poliziotta jugoslava ad una maggiore durezza ed inutile inflessibilità. Nel dicembre 1987, al passaggio in automobile di un valico nel Carso triestino, mio figlio di tre anni, vedendo la fiammante stella rossa sul berretto del finanziere jugoslavo, si rivolgeva allo stesso chiedendogli se quella fosse la stellina di Natale, ingenerando nel militare un’aperta risata (e un leggero brivido lungo la schiena nel sottoscritto). Ora è importante che i confini materialmente annullati vengano meno anche e soprattutto nelle nostre teste; mi permetto pertanto di formulare una proposta: almeno alcuni dei valichi confinari all’in- terno del perimetro Schengen, ormai inutili, dopo essere stati a lungo punti di separazione, di divisione, di controllo, potrebbero venir ristrutturati dall’Ue (e magari dotati anche di una forma di extraterritorialità, se giuridicamente possibile) per diventare centri europei di studio e di conoscenza reciproca per le giovani generazioni dove trovi collocazione uno spazio d’incontro comune (punto informativo, sala per convegni, area per attività sportive, ecc). È certamente necessario ricordare insieme ciò che è avvenuto lungo quelli che erano i confini tra gli Stati che ora costituiscono l’Ue: non per uno sterile ripiegamento sul passato, ma quale motivazione ulteriore per ricercare sempre nuove strade di collaborazione ed integrazione nell’ottica europea che il futuro ci impone. Mario Ravalico – Trieste Fratelli al di là dei confini. Il clima che verso la fine di dicembre si respirava a Trieste, al momento della caduta definitiva del confine con la Slovenia, è stato senz’altro di gioia unita alla speranza che ormai ci fossimo lasciati alle spalle un capitolo lungo più di cinquant’anni. In realtà non è così, o quantomeno non del tutto, per varie ragioni: non ultima la presenza in città di un folto gruppo di esuli dall’Istria che ancora non hanno abbandonato il sogno di un loro ritorno. Perciò ancora ci sono ferite aperte, problemi irrisolvibili. Tutto ciò mi ha fatto ricordare la mia esperienza, legata alla mia storia personale. Figlia di un ufficiale dell’Aeronautica, proprio per l’aspetto elitario del mondo in cui il mio papà si trovava a vivere, ho avuto un’educazione di buon livello fin dalla prima classe elementare. Ci si faceva un punto d’onore non conoscere una parola di sloveno, perché quella comunità era considerata di basso profilo culturale. Tutto ciò è continuato e le barriere fra i due popoli si sono ulteriormente approfondite durante e dopo le vicende belliche. I triestini hanno sofferto prima per l’occupazione titina (mio nonno ha rischiato più volte la foiba in quanto padre di un ufficiale italiano), poi per quella alleata durata fino il 1954. A un certo punto mi sono imbattuta nell’Ideale dell’unità e con enorme gioia e sorpresa ho capito che Dio è Amore. Per la mia vita è stata una vera rivoluzione che mi ha fatto cambiare il mio modo di pensare e di agire. Di colpo mi sono ritrovata dentro le categorie del Vangelo per il quale non c’è né schiavo né libero, né greco né giudeo, e quasi senza sforzo ho iniziato ad amare il mio prossimo: anche quello sloveno. La mia definitiva conversione è avvenuta nel ’69 durante una Mariapoli – la prima in Jugoslavia – a Belgrado, quando siamo stati invitati a partecipare noi e i nostri figli. Lì, nell’intensissimo clima di amore scambievole, mi sono trovata a sentire fratelli serbi, croati, bosniaci, che trattavano noi italiani allo stesso modo. È stato veramente vivere in un’oasi di pace. Ed allora in questi giorni, in questa Trieste, in cui ancora non tutti ragionano così, è rinato in me ancora più forte il desiderio di continuare a dare il mio contributo perché la gente di qui possa assaporare i frutti del vivere insieme da fratelli.