Suicidio assistito… quanti perché

La sentenza della Corte Costituzionale, che in assenza di un pronunciamento del Parlamento ha stabilito che non è sempre punibile chi aiuta al suicidio, solleva tante domande. La tristezza di chi costata come la società scivoli sempre più dalla “relazione” all’”individualismo”.
Giorgio Lattanzi, presidente della Corte Costituzionale al momento della sentenza sul caso DJ Fabo

In due articoli precedenti (qui e qui) avevamo iniziato ad affrontare le tematiche che ci troveremo a dibattere nei prossimi mesi sui temi di “fine vita”. La recente sentenza della Corte Costituzionale, di cui per ora conosciamo solo alcuni stralci, aumenta gli interrogativi:

  • Può la Corte Costituzionale sostituirsi al Parlamento (colpevolmente incapace di trovare un punto di sintesi in questo anno) su temi così rilevante per gli equilibri della Società?
  • Nel momento in cui “in particolari condizioni” diventasse lecito l’aiuto al suicidio consapevolmente scelto, chi dovrebbe “farsi carico” di metterlo in atto?
  • Quale il “limite” di queste “particolari condizioni”?
  • La “libera possibilità” diventerà un obbligo automatico per gli Operatori (non necessariamente medici e infermieri) che dovessero essere riconosciuti dalla legge come “incaricati” all’aiuto al suicidio?
  • Verrà riconosciuto il diritto all’Obiezione di Coscienza? (Da quello che si legge mi sembra che nella sentenza ci sia un salto logico: si passa da dire che “non è punibile” chi aiuta il suicidio, a chiedere come conseguenza in automatico una legge che quasi “punisca” chi non voglia esserne strumento. Terribile pensare che si debba ricorrere all’obiezione per non uccidere).
  • Come si trasformerebbe il rapporto pazienti/sanitari nel momento in cui il primo “incontro” fosse fra una persona malata e non più con chi ha il dovere di curarlo, ma con chi potrebbe ucciderlo?

 

I temi sono ampi e controversi. Lo scenario in cui si sta sviluppando il dibattito è in profondo cambiamento. La medicina stessa sta cambiando. Si è alzata la “soglia del dolore sociale”: il dolore dell’altro non è più “nostro”, ma semplicemente “disturba” e non vogliamo vederlo (questo non riguarda solo i malati, i disabili e i vecchi…). Quindi va nascosto, e “eliminato” (vedi qui).  Si ripropongono nella civilissima Europa, patria dei diritti civili, diversi livelli di “vita”: con eutanasia e suicidio medicalmente assistito riconosceremmo che ci sono “vite che hanno meno senso di altre”, “che sono un costo”, “che sono poco utili o inutili” (e il criterio potrà via via essere la salute, o l’età, o il reddito, o la nazionalità… o l’idea politica e religiosa? )

Di conseguenza, dove si sposta “il limite”? Ci sarà una strada obbligata per le Società del futuro non più in grado di sostenere i costi dell’assistenza? In tal caso bisognerà almeno affermare a chiare lettere che una legislazione eutanasica non avrà come riferimento la “pietà” e la “compassione”, ma prevalentemente o esclusivamente “l’interesse”. Ci sentiremo più liberi e più tutelati da una tale legge? In Belgio, nelle revisioni obbligatorie per legge e dalle interviste ai medici diretti responsabili emergeva che procedure volte ad abbreviare la vita venivano praticate senza l’esplicita richiesta dei pazienti (perché molto anziani o dementi o in coma) in percentuali non del tutto marginali. (Choen-Almagor, 2015).

L’estremo paternalismo medico (“decido io che morire è il tuo bene”) proprio a partire dalle istanze che più lo hanno combattuto. Allinearsi a simili scenari sarà un progresso di civiltà per l’Italia? Pensiamoci…

Un aspetto centrale è quello che la “domanda” di chi chiede l’eutanasia o di essere aiutato a morire richiede risposte autentiche e pertanto deve essere…

  • ascoltata fino in fondo…
  • presa sul serio per la sofferenza da cui nasce…
  • “accolta” nella proposta da parte nostra di “un’altra via”. La via delle cure palliative, per esempio.
  • senza la pretesa che la persona debba “magicamente” sempre cambiare idea (anche se questo spesso accade, perché l’esistenza delle cure palliative ancora oggi è una scoperta sorprendente)
  • pronti a seguire fino alla fine (se lui ci accetta così) un paziente che fino alla fine ci chiederà di aiutarlo a morire ben sapendo che noi non lo faremo: a volte anche questo è “rapporto di cura”.
  • aperti alla possibilità della sedazione palliativa, atto medico, proporzionato e adeguato al controllo dei sintomi non altrimenti gestibili, negli ultimissimi momenti della vita (ore o giorni), che richiede presenza umana e professionale, gradualità, costante attenzione ai dettagli clinici, psicologici e spirituali. Quante volte, l’offerta nel patto assistenziale della prospettiva di questa possibilità di cura –profondamente diversa dall’eutanasia con cui non ha nulla in comune – è sufficiente a rasserenare il paziente (“non ho paura di morire, ho paura di soffrire”) e a sostenere i suoi familiari.

 

Un passo oltre…

Lo sappiamo e ce ne rendiamo conto: siamo dentro un cambiamento epocale di paradigma. Dalla relazione all’individualismo, favorito da un consenso politico basato su rabbia, violenza, rifiuto. È difficile di questi tempi ragionare su una prospettiva “altra” e “alta”, ma probabilmente è anche assolutamente indispensabile: come dice Leget, vicepresidente dell’EAPC (European Association for Palliative Care), la quarta e più dimenticata delle dimensioni del “dolore globale” (fisico – sociale – psicologico – spirituale), quella spirituale appunto, dovrà diventare il cardine di una moderna assistenza che, attraverso una nuova ars moriendi, possa dare le uniche risposte autentiche possibili alla sofferenza apparentemente senza risposta di pazienti e famiglie.

«Alla ricerca di nuove risposte con la mente aperta alle nuove domande» (Cicely Saunders, fondatrice del primo Hospice moderno): sarà anche e soprattutto sul piano culturale e sociale la vera sfida della riflessione sul “fine vita”, senza pericolose scorciatoie.

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