Sudan, il risveglio della comunità internazionale?

Gli ultimi scontri tra Nord e Sud hanno contribuito a far sì che il conflitto non venisse più ignorato dalle grandi potenze: a colloquio con padre Giulio Albanese
Guerriglia in Sud Sudan

Anche l'Unione africana si è fatta sentire: nel documento uscito dall'incontro del Consiglio per la pace e la sicurezza, lo scorso 24 aprile, viene dato un ultimatum di tre mesi a Sudan e Sud Sudan per «accordarsi sul petrolio e i relativi pagamenti, lo status dei cittadini di uno dei due Paesi residenti nell'altro, la demarcazione dei confini e lo status di Abiey». In caso contrario, «il Consiglio prenderà le misure appropriate, richiedendo anche il sostegno delle Nazioni Unite». Parole che potrebbero purtroppo sembrare vuote visto che, a oltre un anno dal referendum che ha portato all'indipendenza del Sud Sudan, i nodi principali di cui sopra rimangono irrisolti. La zona di Heglig, teatro degli ultimi scontri, è infatti uno dei tanti territori contesi, davanti a una frontiera che – pur formalmente sancita nel trattato del 2005 – è ancora “liquida”.
 
Intanto, la situazione sul campo rimane critica. Contattare gente in loco, come Città Nuova aveva fatto in passato, risulta difficile: i telefoni non squillano, e dal Kenya ci viene riferito che «nemmeno noi ci riusciamo da qualche tempo: siamo preoccupati». Notizie dirette ci arrivano  tramite padre Giulio Albanese, fondatore dell'agenzia Misna e attuale direttore di "Popoli e missione".
 
Padre Albanese, che notizie ha avuto dal Sud Sudan?

«La situazione è drammatica, perché sta venendo fuori il nervo scoperto: è stata fatta la pace, ma sono rimaste nel cassetto le questioni su cui bisognava davvero negoziare, ossia i confini e il petrolio. Si contava di affrontarle nel lasso di tempo tra il referendum e l'indipendenza, ma sono state sempre rinviate. Le relazioni tra i due Sudan sono incandescenti: se c'è stato qualche gesto di buona volontà, come la restituzione di alcuni prigionieri, è perché la comunità internazionale sta uscendo dal letargo. Uno sviluppo interessante si è avuto con la visita a Pechino di Salva Kiir, il presidente del Sud Sudan: la Cina, che aveva sempre foraggiato Khartoum, si è detta disposta a finanziare un oleodotto che porti il greggio fino in Kenya, evitando il Nord. Certo, ci vorrà almeno un anno per costruirlo, e si pone il problema di cosa fare nel frattempo: però questo fa capire come la soluzione della questione sudanese dipenda in buona parte dalle grandi potenze, soprattutto Cina e Usa».
 
Dal Kenya ci è stato riferito che, per ora, non ci si attende l'arrivo di profughi: che cosa ci può dire delle condizioni della popolazione?

«In realtà due giorni fa le Nazioni Unite hanno dato il via libera, a scopo cautelare, alla riapertura dei campi profughi in Kenya, quindi è possibile che ciò accada. È vero comunque che, per quanto il vero problema sia il petrolio, esiste anche una questione etnico-religiosa: c'è il rischio che i cristiani che vivono al Nord, musulmano, vengano “immolati” sull'altare di questo conflitto. Anche al Sud, a fare le regole del gioco sono sempre stati i Dinka, l'etnia maggioritaria: lì è morta più gente nelle guerre interetniche che in quelle con il Nord. L'unico vero perdente in questo conflitto è il popolo sudanese».
 
A proposito del Sud, si è spesso osservato come questo nuovo Stato sia privo di un vero potere, e come la Chiesa si trovi a sopperire a molte delle carenze delle istituzioni: è ancora così?

«Intanto non dimentichiamo che il Sud è a maggioranza animista: i cattolici sono tra il 3 e il 4 per cento della popolazione, mentre i cristiani l'11-12 per cento. Detto ciò, a dettare legge è sempre stato l'Spla (l'Esercito popolare di liberazione del Sudan, ndr), nato come movimento di ispirazione marxista – e non cristiana, come spesso si è fatto credere – durante la guerra fredda: per questo, personalmente, ho sempre raccomandato che la Chiesa usasse verso di esso la massima prudenza, per quanto si sia egregiamente “riciclato” dopo la caduta del muro. Rimangono comunque ex guerriglieri, e forse li abbiamo sovrastimati: anche ora, pur essendo l'Mpla (il partito di maggioranza nato dall'Spla, ndr) l'unico vero collante che tiene assieme lo Stato, non c'è un vero processo democratico in atto, né reale partecipazione della società civile. Il rischio che la classe dirigente diventi un'oligarchia è concreto, tanto è vero che i vescovi hanno fatto sentire la loro voce a questo proposito. Ma la Chiesa, che è sempre stata in prima fila nel processo di pace, non è tenuta molto in considerazione».

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