Stranieri ma integrati

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Spesso il luogo migliore per cominciare a conoscere una città è quello di sedersi ai tavolini di un caffè e guardare la gente che passa, osservare gli edifici, i vestiti, il tono della voce, i meccanismi del traffico, la fretta o la calma dei viandanti, gli argomenti di discussione. È certamente una conoscenza superficiale, ma nel contempo conviviale. La gente di Tunisi sembra assai libera nei suoi movimenti e nelle sue conversazioni. Le donne velate non sono che un’esigua minoranza, così come gli uomini ostentamente barbuti. Nel complesso la popolazione si mostra assai occidentalizzata. L’Islam pare messo tra parentesi, confinato nell’ambito della tradizione immodificabile; ma è solo una primissima impressione, perché il radicamento nella religione lo si scopre più nelle case che nelle piazze. Ovunque si pavesano i ritratti del presidente Ben Ali, l’amatissimo primo cittadino. Sull’avenue Bourguiba, l’arteria principale della capitale, non s’affacciano moschee. Si mostra invece la cattedrale dedicata a San Vincenzo de’ Paoli, in puro stile coloniale, quasi a voler dimostrare che quanto scritto nella costituzione a proposito della libertà di culto è vero. Come render conto d’una chiesa oggi minuscola, che pur ha conosciuto momenti di gloria assoluta nel mondo cristiano, come all’epoca in cui il suo suolo veniva calpestato niente meno che da Agostino? È in una tipica abitazione della casbah, con tanto di cortile arredato con fontanella e alberi di arance e limoni, con le sale decorate di maioliche colorate di azzurro cielo, che incontro Ramòn Echeverría, padre bianco, da una vita in Tunisia. L’edificio è la sede dell’Ibla, Institut des belles lettres arabes, conosciuto centro di ricerca universitaria, presso il quale si trova anche una biblioteca per i giovani del quartiere, tutti musulmani, che trovano libri e calma, testi altrimenti rari e voglia di studiare. La nostra conversazione si svolge nello studio essenziale di padre Ramòn, tra libri di teologia e geografia, storia e filosofia, che evidenziano la poliedrica cultura del mio interlocutore, un basco cosciente di esserlo. Ormai dappertutto mi trovo a mio agio, ma anche dappertutto mi sento straniero, anche a casa mia, tiene a precisare. Padre Ramòn, dopo tanti anni, che sguardo pone sulla Tunisia? Che possiamo dire noi, che siamo europei, sulla realtà africana e maghrebina nella quale viviamo solo da qualche anno, e che in ogni caso non è la nostra? Leggo spesso i resoconti di giornalisti europei che denunciano la mancanza di libertà nel paese. Può darsi che abbiano ragione.Ma con che diritto dettano ai tunisini il loro futuro? Che ne sanno loro di quello che succede in questo paese? Certo, la maniera di governare è assai particolare: i giornali qui in prima pagina mostrano di solito una foto del presidente, un po’ come L’Osservatore Romano col papa. Critichiamo le restrizioni alla libertà e alla democrazia che esisterebbero in Tunisia, senza interrogarci sui gravi problemi delle nostre democrazie. D’accordo, ma mi sembra di poter comunque dire che esiste una minoranza crescente di tunisini che vorrebbe una maggiore libertà. Il giorno in cui questa porzione ora esigua raggiungerà il 51 per cento, il paese cambierà in fretta. Per ora la grande maggioranza della popolazione accetta il sistema politico e segue il suo presidente Ben Ali. E nei confronti dell’Europa, qual è, a suo parere, il principale timore della gente comune? Quello di vedersi invadere da una mentalità consumista e atea, e di perdere la propria tradizione religiosa e culturale, l’identità musulmana . Qual è lo stato reale della famiglia in Tunisia? Nel 1840 qui è stata aperta la prima scuola femminile, dai malte- si e dagli italiani. E ciò per dire che in questo paese c’è un grande rispetto per la donna e per la famiglia. Il presidente Bourguiba è stato molto intelligente nel difendere entrambi, e nel dare un ordinamento legislativo assai avanzato per l’epoca. Ha favorito la famiglia per convinzione e per opportunismo. Non è riuscito invece a cambiare le tradizioni islamiche: lui beveva e mangiava nel corso del Ramadan, ad esempio, ma i tunisini non hanno seguito il suo esempio. Tuttavia mi sembra vi siano dei problemi, non tanto dal lato delle donne, quanto da quello degli uomini, che non riescono a liberarsi dal loro complesso autoritario. Decenni addietro le donne provavano imbarazzo quando sedevano ai tavolini dei bar; ora sono gli uomini a essere imbarazzati quando siedono al tavolo… di casa! Prova ne sia la sempre maggiore reticenza delle donne a dare la busta paga al marito, o la scarsa tenuta dei matrimoni (uno su quattro salta). E i matrimoni misti? Funzionano molto raramente, soprattutto per le diverse concezioni della famiglia prevalenti in Europa e Tunisia. Non è facile per le donne europee entrare nella famiglia- tribù tunisina, in cui l’intimità della coppia e della famiglia mononucleare non regge di fronte alle pressioni sociali. È un fenomeno limitato alla classe medio-alta? Non mi sembra. È un fenomeno che si vive anche nei quartieri più poveri. La società tunisina è più chiusa di quarant’anni fa, per un certo verso socio-culturale; ma nel contempo, a causa dei media, è assai più cosciente di quanto accade nel mondo occidentale ed è più disposta a imitare il suo stile di benessere. Quindi si creano dei fenomeni di schizofrenia sociale di non poco conto. Per di più la Tunisia, con dieci milioni d’abitanti, non è più un villaggio, l’anonimato minaccia la gente, e aggiunge un altro motivo all’attuale crisi d’identità. Il velo delle donne è anche una reazione a questa mancanza d’identità. Il radicalismo islamico cresce? Indubbiamente aumenta la sua sfera d’influenza, ma non ci è d di sapere di quanto. Non credo che nella società tunisina possa trovare un grande sviluppo. Chi è il buon musulmano? Chi si considerava un buon musulmano, che in realtà sapeva ben poco della dottrina dell’Islam, ora si trova di fronte a persone radicali che, convinte di conoscere la loro religione, dicono: Si fa così e così, anche se ne sanno ben poco, anche loro. E i buoni musulmani non sanno che cosa rispondere, non sanno leggere il Corano, non hanno idea della shari’a, si trovano a disagio di fronte al discorso islamista, logico e cartesiano, privo anche del linguaggio simbolico e mistico tradizionale . E il dialogo interreligioso? La Chiesa tunisina era originariamente maltese-siciliana. Prima dell’arrivo dei francesi c’era già un dialogo di vita con i tunisini. Su certi versanti il periodo della chiesa coloniale – decisamente francese -, è stata una lunga parentesi. Alla indipendenza, dopo la partenza della maggior parte dei cattolici, abbiamo assistito alla meravigliosa riconversione del clero francese, che si è messo al servizio del popolo tunisino. Gli ideali proposti dal Vaticano II hanno certo contribuito al cambiamento. Le cose, nonostante qualche frizione, sono poi andate bene, con la nomina degli ultimi due vescovi di origine araba, entrambi giordani. Per questi ultimi essere cristiani vuol dire in qualche modo sopravvivere. Così hanno ridato vita alle comunità di minoranza, comunità assai mobili. Ci si può interrogare se ciò permetta la promozione di una vera presenza dei laici nella chiesa. Quand’è nato il dialogo coi musulmani? Dopo il colonialismo, perché prima non si sentiva il bisogno di dialogare e al popolo bastava convivere. Il dialogo avviato si è sviluppato però essenzialmente tra intellettuali, e ormai non avanza molto. Ne rimane tuttavia la convinzione che tutti, musulmani e cristiani, siamo chiamati da Dio a un cambiamento, e che soltanto Dio è il vero missionario. Se si tratta di battesimo – ancora quasi impossibile a causa della pressione sociale -, tocca a Dio indicare i ritmi e i tempi. Il dialogo è un divenire, e deve essere vissuto. Quale futuro? Non so che dire. Bisognerebbe tornare al dialogo della vita dei siciliani e dei maltesi. Certo, dialogare serve sempre, e a furia di incontrarsi non si può più non dialogare, anche quando il dialogo fosse pilotato. OCHI MA CONVINTI Incontro col vescovo di Tunisi, mons. Maroun Elias Lahham. Come sta cambiando il volto della Chiesa tunisina? Non è più francese, ma è estremamente composita, con cinquanta nazionalità presenti per un totale di circa 20 mila cattolici. Le comunità prevalenti sono quelle francesi, italiane e maltesi, anche se negli ultimi anni sta crescendo la presenza di studenti e lavoratori dell’Africa nera. Nella nostra diocesi tunisina ci sono dieci parrocchie, venti luoghi di culto e comunità religiose. È un piccolo resto, ma vivo e attivo. La presenza cattolica è pure assai importante nell’ambito dell’assistenza agli ammalati, nell’aiuto agli studi. Abbiamo anche alcune scuole cattoliche, una decina, ma frequentate quasi esclusivamente da bambini musulmani . Come si presentano i rapporti coi musulmani? Direi tranquilli e sereni, cordiali. La Chiesa cattolica è un corpo straniero ma accogliente, e perciò non ci sono frizioni o tensioni particolari. La nostra è una presenza di testimonianza della vita. L’avvenire di questi rapporti? Sono inguaribilmente ottimista. Ci sono stati tempi molto più duri per la chiesa, in particolare subito dopo l’indipendenza, in cui si pagava il parallelismo tra coloni francesi e cattolici. Il futuro si annuncia fiorente, anche perché aumenta di molto l’immigrazione in Tunisia, e così le nostre comunità si allargano. Le sembra che i tunisini siano pronti ad un buon dialogo? Certamente, più di altri paesi confinanti. La nazione è in fondo serena, non ci sono troppe tensioni, e il livello di vita è tra i migliori della regione. Soprattutto, non c’è amarezza nei confronti degli europei.

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