Storie di padri ritrovati
Accostarsi ad uno scrittore “di frontiera” come Giani Stuparich è prendere contatto con un universo di cui fanno parte la città di sua madre, Trieste, dove egli nacque nel 1891, Praga, dove iniziò gli studi universitari completati poi a Firenze, e Lussino, l’isola istriana nativa del padre, che la sua famiglia lasciò per stabilirsi in quel crogiolo di genti e porto dell’Impero asburgico che era la Trieste italo-slavo-tedesca.
E proprio L’isola è il titolo del volume edito da Quodlibet, che raccoglie due racconti fra i più intensi di quest’ultimo rappresentante della grande stagione letteraria triestina: L’isola del 1941 e Il ritorno del padre del 1933. Entrambi esplorano, con tonalità diverse, la figura paterna. Nel racconto lungo iniziale, autobiografico, Stuparich rievoca la visita fatta col padre gravemente malato di cancro a Lussino (mai nominata, ma facilmente identificabile), quasi per un estremo congedo di questi dalla terra che l’ha visto nascere. Scrive il curatore del volume Giuseppe Sandrini: «L’azzurro dell’Adriatico avvolge genitore e figlio, legati da muta tenerezza che ripropone, a parti invertite, il fiducioso abbandono che ogni bambino cerca nel padre». A parti invertite perché ora è il padre morente che deve trovare appoggio nel figlio trentenne, richiamato dalla sua villeggiatura alpina a trascorrere alcuni decisivi giorni col vecchio uomo di mare.
«L’isola – prosegue Sandrini – mette al centro il dilemma morale di chi conosce perfettamente la gravità di un male, ma deve cercare di dissimularla agli occhi del malato». È un dato di fatto che «in Stuparich la presenza della morte accompagna la continuità della vita, la pervade silenziosamente». Non a caso, il figlio «che vorrebbe parlare ma non ci riesce» trova nella stanza del padre la Bibbia aperta al libro di Giobbe con la domanda senza risposta, citata nella versione seicentesca e protestante di Giovanni Diodati: «Perché dunque mi hai tratto fuor della matrice?».
L’argomento è dunque la morte, «l’avvenimento più importante nella vita di ogni uomo», secondo la diagnosi di Freud di cui già aveva fatto tesoro, a Trieste, lo Svevo della Coscienza di Zeno. Come già nel romanzo di Svevo, il padre di Stuparich resta “straordinariamente tranquillo” e, di fronte alla lotta che si produce nella coscienza del figlio, cerca di «dargli quell’ultima lezione, che le parole non sanno esprimere, ma che dovrebbe suonare più o meno così: Non avere paura della mia scomparsa». Quando nei loro vagabondaggi per Lussino i due si ritrovano casualmente sulla medesima spiaggia selvaggia e appartata, circondati dallo spettacolo meraviglioso della natura e dimentichi di sé, vivono un momento “magico” di sintonia, in cui il figlio finalmente comprende meglio il carattere degli uomini nati nell’isola, comprende meglio il padre. L’isola, in definitiva, non è soltanto una meditazione sulla morte: «È anche il ritratto di un ambiente marino, di un borgo sperduto in fondo a un golfo che Stuparich dipinge con mano felice».
Ad una vita al tramonto segue una vita all’inizio. Nel secondo e più breve racconto, commenta Sandrini, «è il padre a doversi occupare del figlio ancora bambino, che ha conosciuto il genitore solo attraverso i discorsi uditi in famiglia e desidera ardentemente di stare per un po’ con quell’uomo leggendario per i suoi viaggi e le sue assenze. Il mal di denti del bimbo – il tema della malattia fa capolino anche qui, nella forma di un disturbo infantile – diventa un pretesto per costringere il padre a entrare nel suo ruolo; ma quando questi fa per andarsene, seccato, è la semplice parola “Papà”, mormorata dal figlio con “un suono flautato, leggero”, a richiamarlo: “Il padre di volse. Si guardarono: era la prima volta che i loro sguardi poterono sostenersi, e si sorrisero”. Il figlio sperimenta così quell’”abbandono nella certezza” che ogni bambino cerca nel padre e che Stuparich, anche qui ricordando la Bibbia, paragona alla sottomissione lieta di Isacco ad Abramo sull’altare del sacrificio. Toccato nel profondo delle sue memorie di orfano precoce, il padre risponde con tenerezza all’appello di “quel fanciullo che gli parlava con lo sguardo e il volto”».
Il racconto, ambientato in un misero alloggio con una madre assente, per meglio concentrarsi – come il precedente – sul rapporto tra i due, è un sommesso richiamo alla parabola evangelica del padre che – figura di Dio – attende il figlio datosi alla bella vita. Qui però sembrano invertirsi i ruoli: è il padre, avventuriero vagabondo che ha dissipato l’esistenza lontano dalla famiglia in un’inconcludente ed egoistica libertà, a ritrovare attraverso la fragilità di un figlio che gli era stato fino allora estraneo la sua vocazione paterna, la sua umanità.
Scritti in una prosa limpida e piana, poetica, e venati dalla malinconia di chi, segnato dalle tragiche vicende di Trieste e dell’Istria, ha visto spegnersi in guerra le vite del fratello Carlo e del grande amico e scrittore Scipio Slapater, questi racconti perfetti ci toccano profondamente perché parlano di ciò che più umano non potrebbe essere, come la fatalità della morte e la continuità della vita.