Storie israeliane

Tra Bibbia e attualità Israele al cinema continua ad essere una presenza costante, spesso di valore. Come suggeriscono  i due film che presentiamo.

Maria Maddalena:  chi era costei? La domanda è d’obbligo, perchè sul personaggio da secoli si è fatta una notevole confusione. Era la donna guarita dai sette demoni, la peccatrice che lava i piedi a Cristo, la prima testimone della Resurrezione, riunendo in sè ben tre personaggi diversi? L’arte (Pollaiolo, Tiziano, Caravaggio) ne ha approfittato, attingendo all’apocrifo Vangelo di Maria Maddalena e alla medievale Legenda aurea di Jacopo da Varazze. Il cinema pure, vedere L’ultima tentazione di Cristo di Scorsese (1988) e The Passion di Gibson (2004), oltre ai testi letterari che fantasticano di lei come amante e moglie del Messia: anzi, sarebbe lei e non Giovanni ad essere raffigurata accanto a lui nell’Ultima Cena di Leonardo.

mariamaddalena

Il film di Garth Davis tenta un’altra strada, quella della verità storica. Nell’Israele del primo secolo, Maria (Rooney Mara) è una donna decisa, nient’affatto peccatrice o indemoniata – Cristo le si avvicina e non trova alcun demone in lei -, che lotta contro una società maschilista – la famiglia, gli apostoli – per essere sè stessa e seguire Cristo. Il quale, interpretato magnificamente da Joaquin Phoenix, è uno dei migliori Messia sullo schermo: iroso e lieto, buono e dubbioso, dalla faccia segnata e per nulla edulcorato, bisognoso di un affetto che i discepoli non gli danno ma Maria sì, come sorella e discepola, quasi leader degli apostoli. Il film non racconta tutto, tralascia l’ultima cena, sfiora la passione, si sofferma sulla crocifissione: momento in cui, come la Madre aveva detto a Maddalena, per seguire il Cristo «bisogna esser pronti a perderlo». Toccanti le scene della resurrezione: Cristo parla con lei, che lo vede, non dubita come i discepoli e Pietro, un attore nero (Chiwsel Ejiofor, protagonista di 12 anni schiavo): una scelta questa antistorica certamente, ma Hollywood ha sempre bisogno di eroi (oggi al femminile) e di neri, per essere politicamente corretto.  Al di là di queste “licenze” (diverse, come quella di un Cristo che battezza, cosa che non risulta dai Vangeli), il film ha il suo pregio nel proporre l’identità di una donna, vera discepola e fondatrice di una delle prime comunità cristiane, che ha trovato il giusto riconoscimento da parte delle chiese cattolica e ortodossa. Certo, il film presenta anche delle debolezze a livello di sceneggiatura – nessun personaggio “buca”  veramente lo spettatore – e di recitazione – la protagonista è brava ma non emoziona -, tuttavia si tratta di un lavoro notevole, perchè apre uno spiraglio sul mondo femminile accanto a Cristo con naturalezza, e lo riattualizza come una scoperta.

foxtrot

Foxtrot ci riporta nell’oggi. Diretto da Samuel Maoz riprende il discorso  del precedente Lebanon (2009) – storia  claustrofobica all’interno di un tank dell’esercito israeliano – trasferendola  all’interno della bella casa, a Tel Aviv, di una coppia, Michael Feldmann (Lior Ashenazi) e la moglie  Dafna (Sarah Adfle) con un figlio, Jonathan, in servizio militare. Una mattina, bussano alla porta: i due apprendono che il ragazzo è stato ucciso. È lo smarrimento, l’angoscia, la madre sviene, il padre si infuria con tutti, col rabbino che viene freddamente a organizzare il funerale –  qui il film ha una crudele ironia -,  i parenti che lo vogliono consolare. C’è un destino implacabile che guida gli eventi o un Dio vendicatore che dà e poi prende? L’uomo è ateo, ma le domande se le pone. Di colpo, la coppia stressata viene a sapere che il ragazzo è vivo, si è trattato di un errore. Sarà vero? Il film, di schietto impianto teatrale, vira direzione e ci porta in uno sperduto checkpoint nel deserto dove il figlio è di guardia con altri soldati dentro un container che sprofonda giorno dopo giorno. La  metafora è logica: la tensione, la paura, il dubbio fanno sprofondare questi giovani nell’ansia. Tutto pare come i passi del foxtrot, la danza che vede il ballerino  ritornare sempre al punto di partenza, ed è stupenda la sequenza del ballo del figlio, scatenato, ma solo contro il deserto vuoto. Tra incontri, scontri, morti sul filo dei nervi, Jonathan – ma è vivo  o no? – tornerà infine a casa.

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Ma qui il film, nell’ultima parte di un trittico onirico, drammatico, profondamente antimilitarista e pacifico (per questo non amato in patria), cambia ancora direzione. Ora i genitori si ritrovano soli, prigionieri del passato, distanti fra loro, col figlio morto. C’è paura: pane e guerra sono il cibo del  popolo israeliano. La coppia ha un barlume di speranza  e potrà forse ritrovarsi, raccontandosi veramente  per quello che è. Ma poi? Il fato, o Dio, incombono.  Recitato e fotografato splendidamente, il film prende dall’inizio alla fine, con lo stile graffiante, i dialoghi duri, i silenzi interminabili che dicono molto, se non tutto. Profondamente vero, analizza una società che ha fatto del conflitto il motore della vita: in Israele, ma forse nel mondo attuale. Sarà una fatalità, una volontà divina o quella semplicemente umana? Da non perdere.  Esce il 22 marzo.

 

 

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