Storie e volti da Taranto

Incontro con padre Nicola Preziuso, una testimonianza che parte dal 1979: vivere per scelta tra il rione Tamburi e la fabbrica
Taranto - Ilva

Ci tiene a dire che è un “cappellano volontario” in fabbrica. Significa che non ha i gradi da ufficiale sull’abito talare come avviene nel mondo militare e non è inserito nella struttura dell’azienda, ma ha solo il permesso di entrata e uscita nella città dell’acciaio dell’Ilva, ex Italsider di Taranto, per «offrire la vicinanza della Chiesa agli uomini del lavoro».
 
Padre Nicola Preziuso abita al Rione Tamburi dal 1979, nella parrocchia di “Gesù divin lavoratore” affidata alla famiglia religiosa dei Giuseppini del Murialdo che assicurano quella presenza ecclesiale ritenuta indispensabile da Paolo VI. Alla vigilia dell’autunno caldo del 1969, il papa bresciano celebrò la messa di Natale in quella nuova cattedrale dell’industria costruita dallo Stato con slancio prometeico per portare benessere nel Sud. Il testo del discorso è, come sempre, attuale e intenso. Giovan Battista Montini, da sempre vicino ai lavoratori, avvertiva la drammaticità di un mondo verso il quale la Chiesa doveva trovare nuove parole per farsi comprendere e annunciare che «l’uomo è più della macchina», dotato di una grandezza che la necessità di avere il pane non può abbattere. Erano anni post-conciliari di grande generosità, di scelte decise per un’incarnazione radicale del Vangelo. Alcuni preti diventavano operai indossando la tuta come segno della loro consacrazione.

Padre Nicola ci ha accennato i suoi inizi, la conoscenza con i primi preti operai come don Carlo Carlevalis di Torino e gli incontri estivi della Gioc ( Gioventù operaia cristiana) in quella mescolanza tra i ragazzi del Nord e quelli del quartiere che cresceva disordinatamente in terra pugliese accanto alla fabbrica dello sperato progresso economico.  Diverso tempo è passato da quegli anni. Davanti al muro della fabbrica si sono erette colline cosiddette ecologiche che dovevano fare da filtro alle polveri e ai fumi. I dati epidemiologici stanno a dimostrare l’effetto puramente cosmetico di questi rimedi che si rivelano dannosi perché danno l’illusione di risolvere il problema.

Una ciminiera altissima, verniciata di blu, svetta vicino alle prime case del rione Tamburi, sembra parte di un transatlantico incagliato sulla terra: in questo scenario ha scelto di vivere padre Nicola, che spiega con competenza il dettaglio del processo di produzione ma conserva, anche, la memoria storica dei luoghi. Egli sa dove sorgevano le antiche masserie e può confermare che alcune case del suo rione, contrariamente a quanto si racconta, esistevano prima dell’allargamento della fabbrica. E soprattutto conosce la dignità del quartiere operaio. Quella che ha avuto modo di scoprire il ministro della salute Renato Balduzzi quando è sceso proprio in questo rione a spiegare i dati dell’Istituto superiore di sanità sull’aumento di mortalità tra la popolazione. Ha detto: «Mi ha colpito la grande civiltà delle persone di Tamburi», che hanno posto delle «domande semplici e drammatiche» che «mi porto dentro».    

Di domande se ne porta appresso parecchie il religioso di san Leonardo Murialdo. Conosce la durezza di un lavoro come quello dell’Ilva, che richiede il ciclo continuo e non permette grandi spazi di pausa. Anche il momento del precetto pasquale, concordato con direzione e sindacati, diventato un appuntamento classico nella cittadella dell’acciaio, si deve contenere nei tempi dettati dalla produzione. L’attività di formazione e approfondimento avviene, perciò, fuori dalla fabbrica. Temi come cittadinanza attiva e salvaguardia del Creato fanno parte del progetto portato avanti dalla pastorale sociale e del lavoro che vede in padre Preziuso il referente a livello diocesano.
 
Quando è emerso il problema ambientale a Taranto?
«Per i cittadini del rione Tamburi il disagio è sempre esistito. Si vive ogni giorno esposti alle polveri che provengono dall’acciaieria convivendo con allergie e problemi respiratori. Le difficoltà e le sofferenze non hanno ricevuto attenzione a livello nazionale se non in maniera molto blanda fino all’azione dei movimenti e, infine, l’azione della magistratura. Deve far pensare questo emergere del problema dopo 50 anni di presenza della grande industria. Bisogna riconoscere in questa fase la grande determinazione e impegno del nostro vescovo Filippo Santoro che appena insediato si è confrontato con l'inizio dell’indagine della magistratura e l’emergere di una situazione di contrapposizione molto dura».
 
E prima dell’emersione di questo conflitto che percorso avete cercato di portare avanti?
«Nel nostro piccolo abbiamo proposto, nel 2002, un convegno diocesano sullo sviluppo sostenibile e in quella occasione il professor Luigi Fusco Girard, dell’università di Napoli Federico II, ci portò l’esempio di Hamilton in Canada dove una situazione simile a quella di Taranto era stata risolta grazie al coinvolgimento sociale che ha permesso la bonifica del territorio. Un esempio virtuoso che poteva essere seguito anche da noi. In quella occasione avemmo la possibilità di avere intorno al tavolo la direzione dell’Ilva, i sindacati e le associazioni ambientaliste. Un contributo che come Chiesa ritenemmo di poter dare come un granellino di senape sperando di farlo crescere, anche perché non possiamo sostituirci alle istituzioni».
 
A quanto pare l’alternativa non si è avviata. Avete insistito su questa linea? 
«Ci abbiamo riprovato nel 2004 invitando il dottor Walter Huber della Provincia di Bolzano, membro scientifico della commissione della pastorale sciale della diocesi dell’Alto Adige. Appena arrivato si è guardati intorno ed è rimasto stupito che non ci fosse a Taranto un solo pannello solare. “Con tutto il sole che avete!”, ha esclamato, raccontandoci della grande campagna promossa nella sua provincia per avviare le fonti alternative di energia. Abbiamo voluto dare dei segnali ma la cosa non è stata sentita e condivisa finora».
 
Ma è possibile a suo giudizio una riconversione produttiva dell’Ilva?
«Una riconversione è una parola semplice, in maniera articolata si può dire che attraverso la scienza e l’etica si può attivare un percorso per trovare la soluzione migliore. A partire dalle migliori tecnologie possibili. La riconversione è un’ipotesi ma ci sono altri Paesi dove le aziende producono acciaio senza deturpare l’ambiente. Ho visto in questi anni delle trasformazioni enormi dal punto tecnologico e credo, a mio modesto parere, che una soluzione può essere trovata. Ci vuole uno sforzo di coinvolgimento della comunità territoriale, passando da una fase di mero annuncio di slogan al come operare praticamente. Noi come Chiesa siamo passati dalla fase dei convegni a quella della risposta. Ad esempio abbiamo chiesto al demanio dello Stato un’area di 4 ettari, che si trova in stato di abbandono, per poterla bonificare. Un piccolo segno che può servire a dare la spinta perché attraverso un processo reale di partecipazione democratica riuscire a capire che futuro dare a questa città. Ci vuole concretezza. Ad esempio si potrebbe partire dal problema della salute per fare di Taranto un presidio sanitario di eccellenza per la cura delle malattie respiratorie e dei tumori. Oggi le persone devono aspettare parecchi mesi per fare gli accertamenti sanitari necessari per curarsi e questo mi pare paradossale in una città notoriamente compromessa a livello ambientale».  
 
Sappiano di molti pensionamenti anticipati per motivi di salute. Un problema innanzitutto per i lavoratori e poi per le finanze dello Stato che si è accollato i costi invisibili di un certo tipo di produzione usurante. Come sono state le condizioni di lavoro in questi anni?
«Teniamo presente che siamo nel Sud e per gli operai avere la certezza del posto fisso significa aver realizzato un’utopia. Sicurezza che in questi mesi sta vacillando. Frequentando la fabbrica e ricevendo una grande accoglienza da tutti, ci siamo resi conto che l’Ilva, e prima ancora l’Italsider, non hanno prodotto solo acciaio ma hanno fatto crescere dei valori. Oltre alla questione dell’impatto ambientale, abbiamo colto la capacità di uomini che sanno lavorare e produrre assieme, affrancandosi da una mentalità di tipo assistenziale. Persone che sanno fare squadra e sperimentare alte forme di solidarietà.  Esiste una forma di sapere condiviso, non solo tecnologico, una “intelligenza” che ora è chiamata a dare una risposta ai nuovi “segni dei tempi” per usare i termini di papa Giovanni XXIII. Perché la questione ambientale è uno di questi segni da cogliere e che impone di recuperare il tempo perduto».
 
Ma Taranto non è solo l’Ilva. Esiste, come in tutto il Sud, una percentuale altissima di disoccupazione. Che tipo di risposta si può dare?
«È  proprio questa l’attenzione che ci viene richiesta: verso chi è escluso dal lavoro e vive la prima povertà, quella di non avere prospettive per il futuro. A questo fine dal 1994 abbiamo creato il Cem, Centro educativo Murialdo, che è un centro di orientamento alla vita e al lavoro, una serie di "spazi" (pasticceria, ferro battuto, ceramica, saldatura, parrucchiere, ecc…) utili per scoprire la propria "vocazione lavorativa" entrando in contatto con i saperi artigianali e individuare le proprie attitudini anche in termini di autoimprenditorialità. L’area demaniale della Marina che abbiamo ricevuto in concessione servirà proprio per consolidare il lavoro già avviato in città, in un’ex casa cantoniera, con grande successo grazie alla collaborazione e alla solidarietà concreta di molte persone che donano il proprio tempo per rispondere alla necessità di creare lavoro in questa terra. Per i giovani ma non solo. Per gli esclusi per eccellenza come sono gli ex detenuti. Nessuno li prenderebbe eppure molti di loro hanno un desiderio di riscatto sociale e volgia di ricominciare che anche i più scettici cominciano ad apprezzare. Soprattutto quando chi esce dal carcere trova la possibilità di imparare un mestiere, un saper fare che lo rende libero e indipendente. C’è molto da fare. Come diceva don Tonino Bello dobbiamo “consolare gli afflitti e affliggere i consolati”. Non so se siamo riusciti a fare entrambe le cose, ma ci stiamo provando».

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