Storie di una reporter di guerra

Abbiamo incontrato Barbara Schiavulli, corrispondente di guerra, per parlare del suo nuovo volume di graphic novel, “Bulletproof Diaries”, dove racconta la sua vita e i Paesi visitati come giornalista, un «lavoro che non si fa, lo si diventa».
Una striscia dal graphic novel

La lista di Paesi nei quali la giornalista romana ha passato la gran parte degli ultimi 20 anni è impressionante; sia per la quantità e il tempo trascorso sia perché si tratta di Paesi quasi sempre sull'orlo o decisamente dentro una guerra (portata dall'esterno o interna, non che ci sia grande differenza).

Alle mille collaborazioni con quotidiani, periodici, riviste, alla creazione di una webradio, alla realizzazione di 3 libri nei quali ha raccontato (lavoro per il quale è stata più volte premiata) la guerra ma soprattutto come la stessa incida nella vita della gente comune aggiunge anche un fumetto. Un volume di graphic journalism, come si usa chiamarlo, nel quale racconta sia la sua vita e la sua vocazione sia le incredibili situazioni nei quali versano i Paesi (in primis l'Afghanistan) che ha visitato negli ultimi anni. Edito dalla Round Robin,illibro è disegnato dall'autore romano Emilio Lecce ed è intitolato Bulletproof Diaries (Storie di una reporter di guerra).

 

Abbiamo incontrato Barbara Schiavulli per porle alcune domande in merito. Partendo proprio dalla scelta di realizzare una graphic novel.

 

Salve, Barbara, e bentrovata: in prima battuta ci racconteresti il tuo rapporto con il fumetto?

Mi sono imbattuta nel fumetto giornalistico una quindicina di anni fa, quando vivevo a Gerusalemme e ho letto Palestine di Joe Sacco. Mi piacque moltissimo, mai avrei immaginato che saremmo diventati amici e che mi avrebbe anche inserito in uno dei suoi ultimi libri. In una delle nostre tante conversazioni, mi disse che con tutte le storie che avevo avrei dovuto fare qualcosa anche io. Ho scritto 3 libri “tradizionali”, prima di arrivare a Bulletproof Diaries. Nella vita privata sono un’appassionata di Dylan Dog, e ovviamente di tutti i libri di fumetto che si occupano di guerra.

 

In che modo sei entrata in contatto con l'editore e il disegnatore per la realizzazione del volume della Round Robin?

Direi che l’universo ha cospirato. Un giorno mentre parlavo di Luigi Politano della Round Robin manifestando il mio desiderio di fare un libro, lui ha preso alcuni dei suoi volumi con diversi fumettisti e mi ha detto di scegliere il tratto che mi piaceva di più. Il mio occhio è caduto su quello di Emilio Lecce. «Un bravo ragazzo», ha commentato Politano, telefonandogli subito. Emilio in un primo momento ha detto che non poteva, che era troppo impegnato, ma quando ha sentito il mio nome per un attimo si è fermato il tempo. «Io la conosco», ha detto al telefono nonostante io non lo avessi mai incontrato. Abbiamo scoperto che sua madre era una vicina di casa di mia nonna che le parlava sempre di una nipote un po’ matta che andava a raccontare le guerre e non voleva sposarsi. La matta naturalmente ero io. E quindi Emilio a quel punto è riuscito a trovare il tempo per lavorare con me.

 

In che parte hai contribuito alla realizzazione?

Mia la sceneggiatura visto che parla di un Paese dove sono stata una quarantina di volte e che amo profondamente. Credo di aver fatto impazzire Emilio con le mie storie. Ci trovavamo a casa mia, nei bar, in ristorante, perfino in stazione e per ore gli ho raccontato storie sull’Afghanistan e il giornalismo. E questo è il risultato.

 

Viviamo in un momento in cui il giornalismo paga in maniera importante la crisi economica. Pensi che sia reale il rischio di livellamento verso il basso? Esistono soluzioni a questa corsa al ribasso?

Il giornalismo è già al livello più basso, altro che rischio. In Italia purtroppo non c’è solo la crisi finanziaria, ma una crisi di qualità, di interesse e di professionalità. Ma ci sono anche tanti colleghi bravi, generalmente sfruttati, e io sono fiduciosa.

 

In questo contesto alcuni giornalisti (inviati, acuti scrittori di corsivi) spiccano molto facilmente sul grigiore generale. Cosa pensi faccia la differenza in questi casi? Le capacità, la volontà?

Onestà, competenza, professionalità sono le caratteristiche di un buon giornalista. I figli di persone importanti e i raccomandati non rientrano nelle mie caratteristiche per essere un buon reporter.

 

Da piccola cosa avresti voluto fare da grande? E, inoltre, quando hai realmente capito che avresti fatto quello che poi hai fatto?

Ho sempre voluto fare l’inviata di guerra. E quello ho fatto. Non è stato facile, lotto ogni giorno per continuare a farlo in questo Paese. Ma non so fare altro e non voglio fare altro. Perché ci credo. Credo nell’importanza del giornalismo, credo nel bisogno soprattutto oggi, di sapere e capire quello che accade, perché credo che la conoscenza sia il primo passo verso la libertà.

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