Storie di ieri e di oggi
Dedicata alla drammaturgia italiana contemporanea, la sezione finale della Biennale Teatro veneziana diretta da Massimo Castri ha puntato su giovani autori e registi dagli approcci scenici e dai metodi di scrittura diversi. Con Scanna (Premio Tondelli) Davide Enia universalizza il concetto di guerra in una realtà imprecisata. Con un dialetto stretto e duro, l’attore e regista palermitano compone un intenso affresco corale. Un bombardamento costringe all’attesa un nucleo famigliare di nove persone dentro un rifugio. Aspettando il ritorno del capofamiglia che – si scoprirà – sta preparando un attentato, affioreranno segreti del passato. E con essi soprusi e ferocie latenti. I giochi, come quello della bottiglia e delle bolle di sapone, per ingannare il tempo, si trasformano in scontri fisici e generazionali. Sono schiaffi, dopo i sorrisi; sputi dopo gli abbracci. Lo scannarsi, infine, con una revolverata tra i due fratelli, riporta alla storia di Caino e Abele raccontata dal nonno svampito in carrozzella: cantore surreale di storie bibliche e di filastrocche; dell’amore e dell’innocenza, proprie della memoria dei saggi. È un’altra memoria dell’ultimo conflitto mondiale lo Scemo di guerra. 4 giugno 1944 di Ascanio Celestini, recuperata dai ricordi del padre scomparso un anno fa. Nel giorno della Liberazione di Roma lo sventato pericolo di farsi ammazzare da un cecchino mentre raccoglieva una cipolla, diventa l’episodio d’inizio per raccontarci dell’ultimo giorno dell’occupazione fascista. Come sempre l’attore romano raccoglie ricordi personagelido li e collettivi; ne aggiunge altri, le mischia, e li fa aprire uno dentro l’altro. Col risultato di una narrazione popolare da epopea, dai toni intimi, dove realismo e favola trovano unità narrativa. Un’oralità circolare che culmina con la voce registrata del padre, mentre si spegne la fioca luce al neon nel piccolo quadrato da dove, seduto, Celestini ci ha inchiodati con la sua idea di storia: fatta di persone col loro bagaglio di vissuto. Per non perdere la capacità di saper ascoltare. E ricordare. Al bellissimo testo di Andrea Malpeli Io ti guardo negli occhi (Premio Riccione) non viene resa piena giustizia dalla messinscena di Chèrif. Il tema dell’immigrazione nasce dallo spunto reale di una telefonata tra un marocchino che lavora nel bresciano cucendo camicie, e la figlia rimasta nella sua patria. Sul filo scorre la distanza dei sentimenti, e il bisogno di avvicinare e capire anime e culture lontane. Non è il disagio di chi, straniero, vive fuori dalla propria terra, ma di quelli che restano. Due visioni che il regista tunisino non riesce a fondere drammaturgicamente limitandosi a un contenitore visivo di immagini e grafie islamiche proiettate. Alvia Reale mette tutto l’impegno nel ruolo della figlia, accanto però ad attori poco credibili.