Storie da un’eruzione
Le immagini in movimento di antichi affreschi proiettate su schermi giganti trasformano in spazio evocativo l’atrio monumentale del Museo Archeologico di Napoli. D’un tratto queste scene di vita pagana con sottofondo di musiche arcaiche si dissolvono tra boati e grida di terrore: seguono le impressionanti sequenze di una eruzione con ceneri, lapilli, bagliori d’incendi e una nuvola ardente di gas e ceneri (il cosiddetto surge) che rotola lungo il pendio del vulcano, apportatrice di morte. Dopo il cataclisma, si aprono scenari di deserto lunare là dove prima erano città opulente e campagne feconde; poi il loro ritorno alla luce assieme alle vittime, perite nel vano tentativo di fuga.A fine proiezione, il lamento del poeta Marziale su tanta rovina: “Neppure gli dei avrebbero voluto che ciò fosse stato loro lecito”. È l’introduzione spettacolare a Storie da un’eruzione, una mostra la cui peculiarità rispetto ad altre di argome n t o vesuviano è che, pur offrendo all’ammirazione straordinari e spesso inediti reperti storico-artistici, ha come centro focale le vittime della catastrofe del 79 d.C. che desolò città e regioni fiorenti della “Campania Felix”. Ed è proprio questa attenzione ai risvolti umani a renderla di immediata presa sul pubblico. Perché, se gioielli e oggetti di uso comune, opere scultoree e affreschi sono riferibili ad una precisa epoca del passato, certe tragedie – quelle dovute ad un evento naturale come quelle di cui l’uomo stesso si è reso responsabile – hanno una carica coinv o l – gente che travalica il dato storico: morte e sofferenza sono le stesse, in ogni tempo. Così Primo Levi ha potuto, in una sua poesia, accomunare una bambina di Pompei ad Anna Franck e ad una anonima giovinetta di Hiroshima. E in effetti viene spontaneo confrontare certi calchi di pompeiani con altre vittime dei nostri tempi, fissate ormai nel nostro immaginario. In cosa, del resto, si differenzia il papà curdo stramazzato sui suoi gemellini nell’inutile tentativo di salvarli dall’iprite irachena, da chi, duemila anni addietro, aveva cercato di proteggersi con un lembo della veste dalle mortali esalazioni del Vesuvio? Questa presenza così frequente delle vittime nei resti delle città dissepolte è un fatto isolato rispetto agli altri siti archeologici, un unicum che non manca mai di provocare intensa emozione in chi visita Pompei, Ercolano o Oplontis; insinuando un elemento di umana pietà tra le curiosità o i dati meramente scientifici offerti da una guida, stampata o parlante che sia. Circa duemila sono state le vittime rinvenute in oltre duecentocinquant’anni di scavi nell’area vesuviana. Solo però a partire dal 1860, grazie all’ingegnosa tecnica introdotta da Giuseppe Fiorelli – riempire con gesso liquido i vuoti lasciati dai corpi decomposti nel banco di lapilli -, si è cominciato a ricavare dei calchi umani spesso di sconvolgente nitidezza. Sistema che, applicato anche agli animali e ad altri oggetti deperibili, ha fornito una cospicua messe di conoscenze del mondo antico. Se ciò vale per Pompei ed altri siti adiacenti ricoperti da una coltre di ceneri e lapilli, altro è il discorso per Ercolano, dove le modalità del seppellimento furono diverse. La cittadina infatti venne investita da una colata di fango ed ha restituito solo scheletri. Di alcuni di questi nostri antichi progenitori la mostra cerca di seguire le tracce, di ricostruire gli ultimi drammatici momenti in cui – soffocati o bruciati – vennero sorpresi dalla morte, negli edifici o in fuga verso una impossibile via di salvezza. Ricchi o poveri, liberi o schiavi, recando con sé i loro oggetti più preziosi o soltanto povere cose. Dalla donna incinta caduta bocconi lungo la Via Stabiana al bambino della Casa del Bracciale d’oro, che sembra solo dormire; allo schiavo della Casa del Criptoportico ancora imprigionato nei ceppi; al medico rinvenuto nella Grande Palestra con accanto i suoi strumenti chirurgici; ai circa trecento ercolanesi ammassati presso l’antica spiaggia: gente che lì aveva trovato temporaneo rifugio nella speranza di allontanarsi via mare. E il calco di un gruppo di questi scheletri, esposto nella Sala della Meridiana, ha lo stesso sconvolgente impatto dei medievali “trionfi della morte”. Una mostra che continua, anche dopo la visita, a suscitare risonanze nell’animo, che non si dimentica. Come lo sguardo spaurito del corridore bronzeo dalla Villa dei Papiri, scelto ad emblema di essa quasi a significare l’impotenza dell’uomo davanti alle catastrofi che di tempo in tempo funestano il pianeta. Oreste Palliotti Storie da un’eruzione. Pompei, Ercolano, Oplontis. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Fino al 31 agosto. (Catalogo Electa) CIÒ CHE OFFRE LA MOSTRA 11 calchi umani, 30 affreschi, 10 sculture, 500 preziosi monili, 200 oggetti di uso comune in un allestimento di particolare suggestione che mette in dialogo con le prestigiose collezioni pompeiane del Museo napoletano antiche e nuove scoperte. Ponendo l’accento sul dramma delle vittime e cercando il più possibile di collegare ad esse gli oggetti esposti. Tra i pezzi più preziosi, la cassaforte decorata da Oplontis, l’Amazzone e la Hera provenienti dalla Villa dei Papiri, alcuni raffinati oggetti di oreficeria, i dipinti distaccati dal complesso di Moregine (sobborgo di Pompei) e dalla Villa 6 di Terzigno. A rendere ancor più coinvolgente il percorso, la multimedialità: una video-storia pompeiana dall’eruzione del 79 d.C. fino alle scoperte archeologiche degli ultimi secoli, con oltre 600 immagini proiettate a ciclo continuo; una moderna rilettura della testimonianza di Plinio il giovane sull’eruzione, in contrappunto emotivo tra passato e presente; e infine spezzoni di oltre 20 film dai primi del Novecento ai giorni nostri, ispirati a Pompei e alla sua tragedia.