Storie all’ombra di un ombù

L’albero nazionale di Argentina e Uruguay è protagonista in uno struggente racconto del romanziere naturalista William Henry Hudson
Albero di Ombù

Ho appena finito di leggere El Ombù, un bellissimo racconto lungo che William Henry Hudson (l’autore di La terra rossa, Verdi dimore, Il libro di un naturalista ed altri affascinanti romanzi e testi scientifici) dedicò nel 1902 all’unico albero che cresce nelle pampas, le sconfinate praterie nelle quali lo scrittore anglo-argentino visse la sua incantata giovinezza: l’ombù, appunto, prezioso riferimento e riparo dal sole per chi s’avventura in esse, oltre che motivo ispiratore per tante leggende degli indios.

Strano albero l’ombù! Intanto, meglio sarebbe definirlo erba gigante. Infatti il tozzo tronco ramificato emergente da un viluppo di nodose radici non presenta, al taglio, cerchi cambiali: ciò che rende più difficile attribuire una età a certi esemplari. Esuberante e di rapida crescita, in soli quindici anni arriva a venti metri di altezza. Ma è soprattutto in larghezza che si espande (la circonferenza della chioma può raggiungere i trenta metri). Ha verdi foglie ovato-lanceolate e infiorescenze giallastre. Dalle bacche carnose, violacee quando giungono a maturazione, si estraeva una lacca colorante: di qui il nome scientifico Phytolacca dioica. Originario dell’Argentina e dell’Uruguay, sembra che sia stato introdotto in Europa alla fine dell’Ottocento dal principe Odescalchi, che piantò i primi esemplari nella sua tenuta di Palo Laziale. Oggi è presente in tutta l’area mediterranea e nel Sud Italia (una varietà inselvatichita prospera a Salina, una delle isole Eolie). Purtroppo il suo legno morbido e spugnoso, facile ad essere manipolato, ha fatto sì questo albero maestoso nato per i grandi spazi venga spesso ridotto alle dimensioni di un bonsai da appartamento.

Ma torniamo a Hudson, al quale esso era familiare fin dall’infanzia: era nato infatti nel 1841 nelle pampas di La Plata, nella casa detta “I venticinque ombù”, presso il villaggio di Quilmes. Nel racconto di cui parlo lo scrittore s’immagina nelle pampas meridionali di Buenos Aires, in compagnia di un vecchio pastore, Nicandro. È un giorno d’estate ed entrambi siedono all’ombra protettrice di un ombù: «un grande albero che si erge tutto solo, senza nessuna casa nelle vicinanze; solo le vecchie fondamenta di mattoni di una casa, a tal punto coperte d’erba e di gramigna che per scovarle dovete concentrarvi con lo sguardo». Così esordisce Nicandro, che nella sua lunga esistenza trascorsa presso El Ombù (l’estancia del titolo) è stato testimone e custode di storie tristi e crudeli, proprie di un mondo primitivo, ma che nel ricordo vengono trasfigurate e assumono una dimensione favolosa.

Inizia con quella dell’ultimo proprietario: don Santos Ugarte, detto Cavallo bianco. Tre volte vedovo, ha un numero imprecisato di figli bastardi sparsi nel territorio. Non è certo uno stinco di santo, «ma chi è che va a cercare un santo in mezzo a uomini duri, che passano la vita a cavallo e sono a capo di grosse case?». Le disgrazie di quest’uomo coraggioso ma impulsivo iniziano quando uccide a sangue freddo il giovane schiavo nero Melitón, che peraltro amava come un figlio, colpevole di aver trasgredito un suo ordine. Per sottrarsi alla giustizia, don Ugarte è costretto a fuggire oltre il Rio de la Plata: da lontano, attenderà per anni, fino alla morte, una grazia che non giungerà mai.

Intanto la estancia, in stato di abbandono, è divenuta casa di fantasmi nella quale, a lungo, nessuno osa venire ad abitare. Finché vi si installa una famigliola di allevatori caduta in miseria: Valerio de la Cueva, sua moglie Donata e il piccolo Bruno. Anche qui il tranquillo scorrere dei giorni viene interrotto da un fatto increscioso: Valerio, uomo mite, generoso, creatura quasi angelica, viene requisito dall’esercito per partecipare agli orrori di un campagna militare contro gli indios; accusato ingiustamente, viene fatto torturare dal suo superiore, il colonnello Barboza: tornerà a El Ombù in fin di vita, appena in tempo per spirare tra le braccia di Donata. «Ci sono cose – commenta Nicandro – sulle quali dobbiamo osservare il silenzio o dire soltanto, levando gli occhi al cielo: il Signore ci ha forse dimenticati? Ne è al corrente? Ma per me si trattò della perdita più grande di tutte, perché era mio amico, era l’uomo a cui volevo maggiormente bene».

Ora Donata, che supera la sua disgrazia dedicandosi al piccolo Bruno, divide il tetto esente d’affitto con Pascual e sua moglie, due anziani coniugi. Singolare l’abitudine da lei presa: ogni giorno va a innaffiare il terreno là dove il suo sposo è spirato, e da arido che era quel punto è diventato, a forza di cure, un verde cuscino di pianticelle. Col figlio però conserva il segreto sulle circostanze che hanno provocato la morte del padre. Bruno cresce e s’innamora di Monica, figlia di un ranchero confinante. Malauguratamente, nel periodo in cui deve assentarsi da casa per il suo lavoro di mandriano, viene a scoprire tutto. Decide allora di andare in cerca di Barboza per vendicare il padre, invano dissuaso da Nicandro, che prevede sciagure per la madre e la fidanzata. Difatti Donata morirà di crepacuore, senza più rivedere il figlio. Dopo varie peripezie (arruolamento forzato nell’esercito, diserzione) il giovane, sempre posseduto del demone della vendetta, riesce a rintracciare Barboza, ora divenuto generale, ma mentre tenta di assalirlo viene a sua volta ucciso da costui (che però di lì a poco farà una fine miseranda).

Sola a casa, è rimasta ad aspettare Monica, che alla notizia della morte del fidanzato impazzisce. Intanto è diventato esecutivo l’ordine di sgombro da El Ombù. Il vecchio Pascual muore e la vedova si trasferisce presso dei parenti a Chascomús, portandosi dietro l’infelice ragazza. Alla morte anche della vecchia, Monica, ormai nota come “la loca del Ombù”, viene adottata dalla pietosa gente del villaggio. Il suo posto preferito è la riva del lago. «La troverete lì quasi tutti i giorni, seduta su un rialzo all’ombra degli alti cespi di finocchio, che guarda al di là del lago. Osserva i fenicotteri. Ce ne sono tanti di quei grossi uccelli sul lago e vanno a stormi, e quando si levano e attraversano la distesa d’acqua, volando a bassa quota, le loro ali scarlatte si possono vedere da grande distanza. E ogni volta che intravede uno stormo trascorrere come una rossa stria attraverso il lago, caccia un grido di piacere. È questa tutta la sua felicità: la sua vita. È lei l’ultima di tutti coloro che hanno vissuto al tempo mio a El Ombù». Così conclude il suo racconto Nicandro.

Da naturalista “con l’anima” qual è, Hudson, ha saputo descrivere in maniera inarrivabile la flora e la fauna dei Paesi in cui è vissuto. Se manca in questo racconto una descrizione fisica dell’albero nazionale dell’Argentina e dell’Uruguay, è perché vuol darcene una immagine “altra”, onirica. Lo fa attraverso le parole del vecchio pastore, che di notte vede l’ombù «brillare di lontano come un fuoco bianco» e talvolta, stando all’ombra di questo solitario che veglia ormai su rovine, s’illude di sentire «rumor di passi avanti e indietro, e schiamazzo di cani e di pollame, grida e risa di bambini e voci di persone che discorrono»: sono le esistenze gioiose, ma più spesso dolenti, che nel volgere delle stagioni il grande albero ha accolto sotto la sua chioma misericordiosa.

 

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