Una “Storia vera” di perdono

Il film The straight story del regista David Lynch è stato realizzato nel 1999, ma resta attuale nel messaggio di pace e riconciliazione che i suoi protagonisti trasmettono agli spettatori.

Compie vent’anni uno dei film più belli che siano mai stati realizzati sul tema del perdono: The straight story – in italiano Una storia vera. Un film sulla difficoltà e sulla bellezza di essere e sentirsi fratelli, sulla capacità umana di mettersi alle spalle il passato, gli errori, le colpe, e di ascoltare il sentimento dolce e appassionante dell’amore. Un film che parla di come sia importante alimentare il desiderio della riconciliazione – che respira in ognuno di noi – e metterlo davanti all’istinto divorante e distruttivo dell’odio, che pure può abitare dentro ognuno di noi.

Si tratta di un film americano, diretto da uno di quei registi – grandi maestri – che di solito fanno un altro tipo di cinema: affascinante, personale e inclassificabile, per tanti versi, la cui definizione, accanto a quella di cinema visionario, può essere l’aggettivazione del nome stesso dell’autore: lynchiano, in questo caso, da quel David Lynch, mitico regista di film come Strade perdute, The elephant man e Mulholland drive. Un regista di culto, che ha quasi sempre lavorato su registri lontani dal realismo, ma che qui, invece, realizza un’opera lineare, meravigliosamente e godibilmente lenta, asciutta, solare, semplice. Diversamente poetica rispetto alle altre.

Un dolce viaggiare lungo una pianura americana di gente, paesaggi e coltivazioni, di sole e temporali, di cieli estivi stellati, di storie difficili di poveri esseri umani, a ricordarci che la vita non è un gioco, ma una cosa seria, che è bellissima se vissuta con saggezza, se protetta con cura, se innaffiata tutti i giorni, ma è delicata come un fiore, e può ammalarsi facilmente, nell’anima prima ancora che nel corpo.

È la storia, quella narrata in Una storia vera, o forse è la non storia, la storia interrotta, mancata – da un certo punto in poi – di due fratelli, di due solitudini che non si parlano da anni. Il primo dei due sia chiama Alvin, ha 72 anni e vive nello stato dell’Iowa, senza più la moglie, solo con la figlia Rose, che non sta tanto bene con la testa, con il cuore invece sì. Muove i suoi occhi azzurri e febbrili, il dolce e inquieto Alvin, osserva se stesso sotto la sua barba bianca contornata dalle rughe secche di sapiente contadino.

Suo fratello si chiama Lyle e vive nel Wisconsin, da quando un giorno, dopo essere stato per una vita inseparabile con Alvin, suo compagno di giochi, di avventure e di ogni tipo di esperienza, litigò con lui e i due interruppero ogni rapporto. «Una storia antica come la Bibbia – la definisce Alvin durante il colloquio con un sacerdote –, come quella di Caino e Abele! Rabbia e vanità mescolate all’alcool, ed ecco due fratelli che non si parlano più da dieci anni». Solo che Alvin, a un certo punto capisce che questa situazione non può andare avanti, che questo lento ciclo di morte va interrotto. Spezzato.

E allora compie un gesto incredibile, fuori dalla norma, eccezionale. Decide di partire da solo, ormai senza patente e pieno di acciacchi, dallo stato dell’Iowa fino al Winsconsin, non a bordo di un treno, di una macchina o di un pullman, ma del suo trattorino tagliaerba. A dieci, venti all’ora in giro per l’America. Per perdonare Lyle, o forse per farsi perdonare da lui. Non importa. Quel che è certo, quel che conta, è che Alvin vuole riabbracciarlo, riavere suo fratello.

«Devo andare da Lyle  – spiega alla figlia Rose, la sera prima di partire – e devo andarci da solo. Voglio fare pace, voglio stare con lui. Guardare le stelle come facevamo tanto tempo fa». La ragazza capisce, non prova nemmeno a dissuadere suo padre, a dirgli che quel viaggio è un grande rischio per la sua salute. Asseconda l’intuizione del genitore, quella per cui non è mai troppo tardi per perdonare, per uscire dalla separazione, dalla divisione, dal male.

«Se vuoi veramente amare, impara a perdonare – diceva madre Madre Teresa di Calcutta -, perché il perdono non cambia il passato, ma cambia il futuro». E così Alvin si mette in cammino, lentamente, con quel mezzo meccanico che somiglia più a un fardello che a un vero e proprio mezzo di trasporto. Riporta a qualcosa che ricorda, per certi versi, seppure molto alla lontana, la rete che conteneva le armi e le armature di Rodrigo Mendoza, il protagonista del film Mission di Roland Joffè, interpretato da Robert De Niro, che era stato un cacciatore di schiavi e un fratricida, uno che trafficava esseri umani e aveva addirittura ucciso suo fratello, per gelosia. Eppure anche lui, persino Rodrigo Mendoza aveva trovato la possibilità del perdono, di un viaggio verso la rinascita e la redenzione, attraverso un tempo e uno spazio in cui aveva sperimentato il peso del proprio fardello, del proprio peccato.

E così anche Alvin, con errori molto più normali, minuti, quelli della gente comune, ma lo stesso peccati portatori di grande dolore, in primis per lui, si prende il suo tempo ed il suo spazio per prepararsi a dare e a ricevere il perdono, e alla fine arriverà da Lyle, e i due fratelli si guarderanno negli occhi, prima di alzarli lucidi verso il cielo e riprendere insieme a vedere le stelle, mentre scorrono le ultime commoventi note di Nunzio Badalamenti, autore di una magica colonna sonora.

Era il 1999 quando questo film meraviglioso uscì. Non è tardi oggi per rivederlo, e non sarà tardi nemmeno domani. Perché non è mai tardi per capire quanto il perdono sia prezioso, salvifico, utile per noi e per il prossimo.

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