Storia di Brando Giordani/2

La rubrica continua con una seconda puntata dedicata all'autore televisivo. «Quando mio padre mi disse: “Ti devi dimettere!”»
Brando Giordani

Continua la seconda puntata dell'intervista a Brando Giordani. Si parla del dopoguerra e degli esordi della televisione italiana.

Già dagli esordi la tv esercitava un certo fascino seducente…

«Tra i tanti aneddoti ricordo che per il telegiornale mi mandarono di corsa al Consiglio dei ministri che allora si riuniva al Viminale, dove oggi c’è il ministero degli Interni, perché si doveva approvare la riforma del Codice stradale. Mi presentai al sottosegretario del presidente del Consiglio chiedendogli un’intervista. Lui replicò che non poteva rilasciare dichiarazioni perché il Consiglio dei ministri ancora non aveva deliberato. Mentre stavo congedandomi, l’operatore di ripresa che mi accompagnava, un vecchio marpione con un passato nei cinegiornali Luce, s’avvicinò alla scrivania del sottosegretario e gli disse: “Onorevole, ci dica quattro fregnacce, che tanto non l’ascolta nessuno”. E l’onorevole parlò. Già allora la tv, anche se agli esordi, esercitava un certo fascino su chiunque».

 

Com’era l’Italia del dopoguerra?

«Lavorando per il telegiornale, eravamo appena dei ragazzi, siamo stati testimoni della svolta dell’Italia nel dopoguerra. Se guardiamo l’Italia con gli occhi di oggi verrebbe da piangere, perché allora c’era, oltre le tragedie e le ferite della guerra, una gran voglia di rinascere, c’era una forza e un ottimismo che ha portato al miracolo economico degli anni Sessanta.

Da inviato al Sud d’Italia viaggiavo con un furgoncino insieme all’autista, l’operatore, il tecnico del suono, e delle lampade gigantesche per l’illuminazione. Le autostrade non esistevano, non c’era turismo, i contadini dormivano insieme agli animali, il medico prescriveva ai bambini medicinali a base di ferro perché era l’unico modo di farli mangiare. Si moriva veramente di fame. Il sogno di un contadino era mangiare almeno una volta l’anno, a Natale, la carne.

A Torino, invece, c’erano i cartelli: “Affittasi, ma non ai meridionali”. I meridionali arrivavano a Torino con dei treni scalcinati, donne dai capelli mielati, valigie di cartone, fuggivano dalla miseria, dalle campagne. E vivevano nelle soffitte dei condomini, affittando solo il letto che era adoperato da più persone, a seconda del turno di lavoro di notte o di giorno in fabbrica. Da tutto ciò nacque un documentario che realizzai con Ugo Zatterin, dal titolo Meridionali a Torino. I meridionali erano gli extracomunitari di oggi di cui tanto ci scandalizziamo».

 

La tv degli esordi è stata anche una tv pedagogica e culturale?

«Il prodotto televisivo odierno è un sottoprodotto culturale. Fare cultura non vuol dire trasmettere il Nabucco in diretta perché è visto da poche persone, significa coinvolgere il mondo della cultura nel fare la tv. Quando ero curatore di TV7, emanazione del telegiornale diretto da Fabiano Fabiani, facemmo un servizio negli anni Settanta sui bombardamenti americani nel Vietnam del Nord, sposando la tesi liberal democratica e non la posizione guerrafondaia del Pentagono. Il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat vide il servizio e si racconta che scagliò una bottiglia di vino contro il televisore. Ettore Bernabei, il direttore generale, fece dimettere Fabiani. Io lo seguii, per lealtà e amicizia. Ma a nemico che fugge si fanno ponti d’oro. A Fabiani fu affidata la direzione dei Servizi culturali e di integrazione scolastica. A me la vicedirezione. In quegli anni, tanto per fare alcuni nomi, lavorarono, assunti dalla Rai Furio Colombo, Andrea Barbato, Corrado Augias, Emanuele Milano, Giovanni Minoli, Enzo Gulino. I programmi trasmessi in prima serata sulla prima e la seconda rete portano firme di personaggi della cultura italiana come Ennio Flaiano, Tullio De Mauro, Goffredo Parise, Alberto Moravia, Enzo Siciliano, Umberto Eco, Cesare Brandi, Alberto Ronchey, Francesca San Vitale, Luciano Berio, Vittoria Ottolenghi. I registi erano Vittorio De Sica, Pierpaolo Rossellini, Roberto Rossellini, Ermanno Olmi, Alessandro Blasetti. Oggi, invece, abbiamo Gigi Marzullo, per dire com’è cambiata la tv».

 

Lei è anche ricordato per lo scandalo che suscitò il programma "Odeon" per la prima scena di nudo in tv?

«L’idea di fondo del programma era che la vita di tutti i giorni è uno spettacolo, se guardi la vita con ironia e ottimismo. Nella prima puntata andò in onda un servizio sul Crazy Horse di Parigi, che era un locale dove si esibivano le donne più belle del mondo con dei numeri che si giocavano sulle luci, sull’esibizione del corpo, sul si vede e non si vede. La cosa suscitò scalpore. Mio padre, Igino Giordani, che non aveva visto la scena mi telefonò e mi disse: “Ti devi dimettere!”.

Gli spiegai che in realtà era un filmato che descriveva il Crazy Horse come luogo di lavoro dalle regole talmente ferree che sembrava di essere in una caserma prussiana: si timbrava il cartellino, si pagavano i ritardi con le multe, terminato il lavoro le ballerine non andavano nei night club e non potevano finire sui giornali perché sarebbero state licenziate. Era questo l’aspetto che ci interessava, non vedere il nudo per il nudo».

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