Una storia che ci appartiene

Depistaggi e zone d’ombra a 30 anni dalle stragi mafiose del 1992 richiedono un nuovo impegno della società civile
Borsellino Falcone FOTO DI REPERTORIO Foto LaPresse 23-05-2012 Vent'anni dalla strage di Capaci

Palermo fa parte del nostro immaginario anche se magari non ci siamo mai stati. La città ha una storia antichissima. Circondata da una catena montuosa, è collocata in una pianura definita “Conca d’oro”, per avere un’idea della meraviglia originaria del territorio. Il golfo che la delimita accoglie un porto, tra i maggiori del Mediterraneo, nucleo iniziale di un insediamento urbano che, con il centro storico recentemente recuperato, genera stupore per la sua bellezza. Una città misteriosa, come tutta la Sicilia, e che non si può pretendere di decifrare. Ma c’è un’icona contemporanea che continua ad interrogarci. È lo scatto fotografico dell’attimo di un sorriso d’intesa di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Due magistrati dalla fisionomia evidentemente sicula, nati nel quartiere della Kalsa a Palermo, uccisi nel 1992 con tecnica stragista fatta apposta per provocare altre vittime e incutere terrore.

Un viaggio a Palermo non dovrebbe mai tralasciare la visita alle stanze blindate dei due giudici, collocate nel colossale palazzo di Giustizia stile ventennio, rimaste intatte dal 1992, con le insegne dei campanelli scritte a penna e una serie di attrezzi da archeologia informatica che riprendono vita grazie a una guida d’eccezione. Giovanni Paparcuri è un tipo brioso che ama scherzare quando parla della vita quotidiana di quella squadra che riuscì, tra mille difficoltà, a portare al maxiprocesso penale per crimini di mafia che si svolse dal 10 febbraio 1986 al 30 gennaio 1992 riuscendo a colpire i vertici della cupola e non solo i soldati semplici.

Il risultato di un immenso lavoro avviato dal pool antimafia costituito dal magistrato siciliano Rocco Chinnici, ucciso con una carica di tritolo sotto casa il 29 luglio 1983 assieme al portiere del palazzo, Stefano Li Sacchi, e due carabinieri, Salvatore Bartolotta e Mario Trapassi. Paparcuri era l’autista di Chinnici. Si salvò per miracolo pur restando ferito. Dopo la convalescenza decise di tornare sul fronte a fianco dei magistrati coordinati da Antonino Caponnetto, anziano giudice siciliano tornato apposta da Firenze per continuare il lavoro interrotto.

Alla fine del giro di quelle poche stanze è difficile trattenere la commozione. In particolare osservando quelle pagine di una lunga lettera incompleta che Borsellino stava scrivendo a una giovane studentessa del Nord Italia che lo aveva rimproverato perché non era andato a parlare nella sua scuola. Un contrasto di emozioni che Paparcuri riesce a suscitare quando ricorda i due magistrati che il giorno del suo matrimonio intrattenevano gli invitati con una comicità, dice per far capire, alla Ficarra e Picone.

Eppure erano persone che sapevano meglio di tutti di essere in grave pericolo e di suscitare non solo le rivalità e inimicizie, fisiologiche purtroppo in ogni ambiente di lavoro, ma l’odio di un sistema criminale con alleati dentro le istituzioni. Il lavoro del pool fu smantellato e i due magistrati uccisi con modalità stragiste che lasciano persistenti zone d’ombra.

Come ci ha detto Federico Cafiero De Raho, direttore fino a febbraio 2022 della Procura nazionale antimafia e antiterrorismo, lo Stato possiede gli anticorpi in grado di stanare, prima o poi, le anomalie presenti al proprio interno, come è avvenuto ad esempio con l’incriminazione dei poliziotti che avrebbero manipolato la verità sulla strage di via D’Amelio del 19 luglio 1992. Nel più recente processo in corso a Caltanissetta sul caso Borsellino, la procura ha detto di trovarsi davanti a un depistaggio «gigantesco e inaudito che ha coperto alleanze mafiose di alto livello».

Secondo Cafiero De Raho, l’Italia ha risposto alla scelta stragista di Cosa Nostra con grande determinazione tanto che «i vertici dell’organizzazione mafiosa sono stati condannati alla pena perpetua». Eppure la partita non è affatto chiusa se, come ci ha detto lo stesso magistrato, la lunga latitanza dal 1993 del boss Matteo Messina Denaro, direttamente coinvolto in quella serie di stragi, si spiega con «la protezione da parte di soggetti non ancora individuati».

È un dato ormai accertato l’esistenza di una connessione tra organizzazioni mafiose e massoneria deviata. Non è sterile complottismo interrogarsi sui mandanti delle stragi. È istruttivo, in tal senso, ricordare lo scontro nel 2017 tra l’allora presidente della Commissione parlamentare antimafia e i “gran maestri” di diverse obbedienze massoniche contrari a rivelare i nomi dei loro iscritti. «Ma può esistere una tale segretezza in democrazia?», si interroga Antonio Mazzeo, autore di numerose inchieste sulla mafia.

L’ex procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato parla di una tendenza “sedativa” a ricostruire la fase delle stragi come una faccenda circoscritta ai soliti boss “brutti, sporchi e cattivi”, quando invece «il sistema di potere mafioso ha svolto il ruolo di interferire e condizionare il corso della vita politica nazionale in alcuni momenti cruciali con stragi e omicidi eccellenti in sinergia con altri sistemi di potere e lobby criminali, tra i quali la massoneria deviata, di cui la P2 è un paradigma, settori della destra eversiva e stragista, da sempre ostile allo Stato democratico, settori deviati degli apparati statali».

Appare evidente, ad esempio, secondo Mazzeo, il legame con gli equilibri geopolitici internazionali a partire dall’eccidio di contadini avvenuto a Portella della Ginestra il primo maggio del 1947, così come l’uccisione, nel 1982, di Rosario Di Salvo e Pio La Torre, deputato e segretario regionale del Pci, fortemente determinato a contrastare la costruzione missilistica a Comiso.

Resta senza volto l’esecutore dell’assassinio, il 6 dicembre 1980, di Piersanti Mattarella, figura di primo piano della Dc e presidente della Regione Sicilia, nonostante la testimonianza della moglie di Mattarella che aveva riconosciuto il killer nel terrorista nero Giusva Fioravanti. Giovanni Grasso, biografo dell’esponente Dc e attuale direttore ufficio stampa del Quirinale, parla di «uno dei più grandi misteri irrisolti di cui è tragicamente disseminata la storia dell’Italia repubblicana».

Occorre, perciò, respingere in tutti i modi la tentazione di relegare quelle stragi a un passato così lontano da giustificarne la rimozione. Pesano come un macigno le recentissime parole del magistrato Scarpinato su quanto accaduto subito dopo l’esplosione di via D’Amelio e la scomparsa dell’agenda rossa che Borsellino portava sempre con sé: «Se la sua agenda fosse comunque finita nelle mani di noi magistrati, avremmo saputo i nomi dei mandanti e la sua soppressione sarebbe stata inutile. E questo dimostra il perfetto coordinamento tra uomini mafiosi che eseguono la strage e uomini dei servizi che sono esattamente nel momento giusto sul punto e che sanno cosa devono prendere».

Non occorrono risposte consolatorie in questa vicenda perché la vera buona notizia che si può dare è quella di una cittadinanza che non resta assuefatta all’ineluttabilità del male. La Sicilia ha offerto grandi testimonianze di questa coscienza “politica”, collettiva e comunitaria, che non lascia solo nessuno. Roberto Mazzarella, scomparso nel 2014, corrispondente di Città Nuova, amico di Paolo Borsellino, ci ha lasciato nel suo intenso ultimo libro (Vento di scirocco a Palermo, Spazio Cultura 2016) una testimonianza che pone un seme di speranza: «Come chi è innamorato anche chi fa politica intravede piccoli, talvolta esili segni di resurrezione dove altri vedono solo morte e desolazione, problemi e diseguaglianze». Il cammino è tracciato, serve solo seguirlo.

Cronologia essenziale

Tra il 1978 e il 1984 la Sicilia è stata teatro della cosiddetta “Seconda guerra di mafia”, distinta dalla prima degli anni ’60, originata da uno scontro interno ai clan malavitosi anche a causa del controllo dei proventi del traffico di eroina.
A cadere non sono solo affiliati ma anche persone esterne coinvolte dalla furia criminale, poliziotti, magistrati, giornalisti, politici… Un numero di vittime di stima incerta (tra 400 e mille) secondo le diverse ricostruzioni. A cadere il 3 settembre 1982, assieme alla moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente Domenico Russo, anche il prefetto di Palermo, Carlo Alberto Dalla Chiesa, che in un’intervista a Giorgio Bocca aveva detto: «La mafia ormai sta nelle maggiori città italiane, dove ha fatto grossi investimenti. A me interessa conoscere questa “accumulazione primitiva” del capitale mafioso». Il 29 luglio 1983 viene ucciso (cfr. nell’articolo) il magistrato Rocco Chinnici, che aveva promosso la costituzione di una squadra (pool) antimafia con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Antonino Caponnetto torna da Firenze per continuare il lavoro del pool che portò davanti alla giustizia la struttura di Cosa Nostra nel maxi processo di Palermo iniziato il 10 febbraio 1986 con sentenza di primo grado nel 1987 e in Cassazione il 30 gennaio 1992.
Nel 1987 Caponnetto lascia la direzione del pool che viene sciolto dopo la mancata nomina di Giovanni Falcone a capo dell’ufficio istruzione di Palermo.
Falcone accetta, il 13 marzo 1991, la direzione degli Affari penali del ministero della Giustizia dove promuove, tra l’altro, la nascita della Dia (Direzione investigativa antimafia) e la Dna (Direzione nazionale antimafia).
Il 23 maggio 1992 viene fatto saltare con una carica di esplosivo il tratto di strada a Capaci dove transita l’auto del magistrato, che viene così ucciso assieme alla moglie Francesco Morvillo e agli agenti della scorta Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo.
Paolo Borsellino, impegnato nelle indagini sulla strage di Capaci, muore il 19 luglio 1992, in via D’Amelio a Palermo, dove si era recato a trovare la madre, dilaniato da una carica di tritolo assieme agli agenti della scorta Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.
La verità giudiziaria sulle due stragi è al centro di una serie di processi che hanno portato a diverse condanne, ma il discorso non è chiuso. Il 23 maggio e il 19 luglio sono due date condivise della coscienza civile nazionale.

Ne è valsa la pena?

di Gianni Bianco è giornalista Rai. Attualmente è caposervizio della redazione cronaca del Tg3. Per i tipi di Città Nuova è autore con il magistrato Giuseppe Gatti di “La legalità del noi” e “Alle mafie diciamo noi”.

Trent’anni dopo, le commemorazioni delle stragi del 1992 ci mettono di nuovo davanti la più drammatica delle domande. È stato inutile il coraggio di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e degli agenti di scorta?
Constatare che la mafia sia ormai uscita dall’agenda politica, ci spingerebbe a concludere che forse quel sangue sia stato versato invano. D’altronde che senso ha morire ieri per combattere un fenomeno che oggi non sembra interessare granché? Eppure le organizzazioni criminali continuano a bloccare lo sviluppo di gran parte del Sud e proliferano come una metastasi nell’economia del resto del Paese.
E non invita all’ottimismo sapere che le indagini su via D’Amelio siano state azzoppate da quello che gli stessi giudici hanno definito “il più grande depistaggio della storia”. Messo in atto da chi? Da pezzi deviati dello Stato che invece di proteggere i propri uomini più esposti, li avrebbero lasciati soli di fronte al tritolo di Cosa Nostra e poi avrebbero fatto deragliare la verità.
Sembrerebbe la cronaca di una sconfitta annunciata. E invece basterebbe mettere piede in una qualsiasi scuola in cui questo anniversario si celebra, per accorgersi che gli spaventosi boati di quell’estate di sangue a Palermo non hanno seppellito la speranza. Ma l’hanno fatta fiorire.
Era stato Antonino Caponnetto (che di Borsellino e Falcone era il capo) ad intuire da subito, già dopo i funerali dei suoi colleghi, che il modo migliore per non vanificare il loro sacrificio fosse spendersi perché la memoria diventasse impegno e camminasse sulle gambe degli studenti.
E così sui volti di ragazzi e ragazze leggi oggi l’orgoglio di aver avuto fratelli d’Italia così, capaci di indicare con chiarezza da che parte stare, per quali alti valori battersi. Una progressiva consapevolezza cresciuta anche grazie al sorgere, in questi tre decenni, di organizzazioni come Libera, che hanno avvicinato tanti giovani al dolore di chi delle mafie è stato vittima.
Il “no” alla mafia è diventato pian piano un “noi”, missione comune di tanti cittadini convinti che solo insieme si possa sconfiggere l’arroganza dei clan. Qualcosa di molto simile a quel «movimento culturale e morale che coinvolgesse tutti e specialmente le giovani generazioni» che già Borsellino invocava per poter respirare aria pulita, quel «fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità».

 

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