Storia breve, quasi 50 anni, del Teatro Due

Rai 5 propone il documentario “Principi e Prigionieri”, l’avventura di una compagnia di attori che divenne teatro, mutando poi da La Compagnia del Collettivo a Fondazione Teatro Due di Parma
Ph. Luca Stoppini

In questo momento estremamente difficile che stiamo attraversando, anche i teatri sono chiusi perché è necessario stare lontani. Ma è molto difficile per il Teatro di una comunità astenersi da ciò a cui è vocato, astenersi dalla propria missione. Ed è in questa situazione di sospensione che viene offerto un momento di ricongiungimento con la storia del Teatro Due, che è storia di un manipolo di visionari, ma anche storia del Teatro italiano, oltre che storia di una città e della sua comunità.

Rai 5, sabato 21 marzo alle ore 22.45, metterà in onda Principi e Prigionieri, l’avventura di una compagnia di attori che divenne teatro (da La Compagnia del Collettivo a Fondazione Teatro Due), un documentario di Amedeo Guarnieri e Lucrezia Le Moli Munk (prodotto da Reggio Parma Festival con la produzione esecutiva di Fondazione Teatro Due). Si potranno vedere i contributi di molti degli artisti che hanno segnato la storia del teatro parmense, e fra questi Pina Bausch, Peter Stein, Massimo Popolizio, Elisabetta Pozzi, Valerio Binasco, Fabio Biondi, Ninetto Davoli, Filippo Dini, Fulvio Pepe, Raffaele Esposito, compresi gli attori storici e quelli attuali: Roberto Abbati, Paolo Bocelli, Cristina Cattellani, Laura Cleri, Gigi Dall’Aglio, Paola De Crescenzo, Davide Gagliardini, Giorgio Gennari, Walter Le Moli, Luca Nucera, Tania Rocchetta, Massimiliano Sbarsi, Marcello Vazzoler, Emanuele Vezzoli.

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Articolato e atipico nel panorama italiano, per collocazione geografica, forma giuridica e iter storico, il Teatro Due di Parma rappresenta un punto di incontro produttivo tra differenti sistemi artistici, metodologici, di mercato e di pubblico. La storia ci racconta che era il 1977 quando, a Parma, una compagnia di attori diede vita a un nuovo modello di teatro in Italia. Sono 6 ragazzi e una ragazza, tutti giovanissimi ma con le idee chiare. Si conoscono dai tempi dei Festival di teatro universitario che, negli anni ’60, permettono di viaggiare per l’Europa, superando i confini innalzati dalla Guerra fredda. Da lì nasce la storia di quella che oggi è Fondazione Teatro Due, una complessa macchina teatrale il cui cuore pulsante è l’Ensemble stabile di attori. Naturale evoluzione della Compagnia del Collettivo, l’Ensemble coinvolge al suo interno artisti che provengono da ogni parte d’Italia. Ad attirarli è la facoltà di lavorare con continuità ai progetti, sfruttando la regolarità che solo una vita stanziale è in grado di offrire, un privilegio che gli consente di raggiungere la dignità desiderata, ma che porta con sé un grande senso di responsabilità e un’eccezionale mole di lavoro.

Attraverso una narrazione emozionante, fatta di ricerca di materiale d’archivio e una serie di interviste intime ai membri fondatori della Compagnia del Collettivo, il documentario Principi e prigionieri percorre un viaggio lungo oltre 50 anni, tracciando le tappe di un percorso umano e artistico che è evoluto nella nascita di Fondazione Teatro Due, un cammino in cui la tenacia e la visionarietà dei suoi protagonisti anticipa, s’incontra e si scontra con i principali cambiamenti sociali e politici che hanno segnato l’epoca contemporanea.

«È da quando sono bambina che assisto al lavoro della compagnia – racconta Lucrezia Le Moli Munck, voce narrante del documentario di cui ha firmato anche la fotografia e la regia, figlia di uno dei membri fondatori, e responsabile del settore audiovisivi di Fondazione Teatro Due –.  Ho visto passare innumerevoli vite al suo interno: attori, registi, danzatori, musicisti… Li guardavo ammirata, mi colpiva il fatto che cercassero sempre qualcosa: lavorando, immaginando, combattendo. Ho assistito ai cambiamenti di una compagnia che da gruppo diventava teatro, ho percepito gli entusiasmi, i dissapori, l’esaltazione per le conquiste. Quando una nuova generazione di attori si è insediata, arricchendo le fila della compagnia storica, tutto si legittimò nuovamente, la storia della Compagnia del Collettivo, nell’immaginario mitico di molti, era diventato terreno per costruire il presente. Giovani attori, provenienti da ogni parte d’Italia, abbracciavano gli oneri e gli onori che lavorare a Teatro Due comportava. Provare il pomeriggio per uno spettacolo e di sera andare in scena con un altro e così a ciclo continuo; scegliere che il proprio tempo, il proprio agire sia qui e non altrove, diventare principi di un regno immaginifico e prigionieri di un ruolo assegnato. Spesso, lavorando a Principi e prigionieri, ho ripensato alle parole di uomo di teatro. A chi gli chiedeva della sua professione, rispondeva così: “Se qualcuno avesse chiesto a me e ai miei amici quale fosse la ragione della nostra furia ostinata, non avremmo saputo rispondere. Noi facevamo teatro perché facevamo teatro. C’era chi doveva stare sul palcoscenico nella luce, rivolgendosi ad altre persone sedute nel buio”».

Tre domande al direttore artistico Paola Donati

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Com’è nata l’idea di un documentario sulla storia del Teatro Due? È capitato negli anni che amici danzatori, scrittori, attori, registi non italiani mi esortassero a scrivere una storia del Teatro Due, appassionati dall’unicità del percorso e dall’inguaribile ottimismo che guida ogni trasmissione di esperienza artistica inesorabilmente caratterizzata dal qui ed ora, animati forse da un giusto desiderio di “una quasi eternità” che a me non è mai appartenuto. A quasi 50 anni dalla nascita ci è stata data la possibilità di creare un documentario che raccontasse il nostro viaggio. Un primo scandaglio tra testimonianze, filmati, foto, mappe programmatiche, ricostruzioni, ritrosie, teoria, sentimenti, studio, conflitti, invenzioni, morti, lavoro, lavoro, lavoro, nascite, creazione, tante vite diverse e molta passione.

Come definiresti il Teatro Due? Una casa dove la “protezione” e la cura favoriscono la libertà di mettersi scomodi, di rischiare, di poter sbagliare e ricominciare, dove il risultato finale – sempre provvisorio – è migliore se contiene i semi per nuove colture da far nascere, senza stancarsi. Dove l’andare in scena costituisce solo una parte del cammino per portare se stessi e gli altri altrove. E questo, vista la fragilità e l’irripetibilità dell’accadimento, non è mai certo, per sempre.

Se facessimo il gioco di scoperchiare il tetto del Teatro e dall’alto osservassimo quello che accade in una giornata tipo dal mattino alla notte, cosa scopriremmo? Un’operosità simile a quella di un alveare e un’energia affine a quella che scorre in un gymnasium. In un’epoca ossessionata dall’idea che il contemporaneo e il nuovo si affermino a prescindere dalla conoscenza del passato e dall’esigenza di un futuro, qui il tempo dello studio e della ricerca si applica a tutto il corpus del teatro e la trasmissione della Storia, dei saperi e delle tecniche si acquisisce sul campo. In strettissima relazione all’Ensemble artistico sta l’équipe organizzativa, amministrativa e tecnica della Fondazione Teatro Due, la cui dedizione e cura è pari a quella degli attori che provano una scena, confidando di non trovare mai il proprio porto. C’è del metodo, in questa follia.

 

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