Stop ai femminicidi: in Italia 1 donna uccisa ogni 3 giorni

Madri, mogli, figlie, nonne… Quante donne devono ancora morire perché cessi la violenza maschilista? Le istituzioni devono agire prima, ma serve anche educare ad un cambio culturale.
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Cristina, Donatella, Elisabetta, Elena, Renata, Gabriela, Lorena, Lijdia, Jenny, Camilla, Nevila. Sono i nomi delle donne assassinate in Italia solo nel mese di giugno. Il Servizio Analisi Criminale del Dipartimento della Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno ha registrato, al 26 giugno 2022, 59 donne uccise nel nostro Paese, due delle quali negli ultimi sei giorni. Questo comporta una donna uccisa ogni tre giorni.

Il report elaborato dalla Direzione centrale della Polizia criminale evidenzia che, sul piano generale, gli omicidi sono diminuiti di un 2%, passando da 141 nel 2021 a 138 alla data odierna. Tuttavia, il numero di vittime di genere femminile si è incrementato di un 5%.

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Le cifre sono spaventose, e lo è ancora di più sapere che nella maggior parte dei casi (51 dei 59 totali), i femminicidi sono stati perpetrati da una persona dell’ambito familiare o affettivo della vittima; nel concreto, 31 da parte del marito, compagno o ex partner.

Il femminicidio fa riferimento all’uccisione di una donna in quanto tale, e spesso la forma più frequente è appunto la violenza domestica. Ciò nonostante, la parola “femminicidio” ha un senso anche più ampio e include ogni espressione di odio verso l’universo femminile, dunque qualunque comportamento orientato a minare la libertà, la dignità e l’integrità di una donna, come maltrattamenti o violenza fisica, psicologica, sessuale, educativa o economica.

L’ultimo caso di omicidio è accaduto a Rimini sabato 25 giugno. Benedetto Simone Vultaggio, 47enne, ha ucciso Cristina Peroni, 33 anni, nella sua abitazione di Bellariva, dove era presente anche il loro figlio di 5 mesi, che non ha subito nessun danno. Secondo i vicini, che avrebbero sentito le urla e avvertito la polizia, Vultaggio si sarebbe innervosito perché Peroni non gli faceva prendere in braccio il bambino.

Salvando le differenze, tutti i casi di femminicidio seguono uno stesso schema. La violenza, infatti, non arriva tutta di un colpo: è costantemente presente e si accentua con il tempo, diventando ogni volta più frequente e più macabra, arrivando a confondere la vittima e a portarla a normalizzare gli abusi.

La psicologa statunitense Lenore Walker ha spiegato, già nel 1979, che nel ciclo della violenza domestica si possono osservare tre fasi:

Prima fase: accumulo di tensione
La violenza è subdola, percepita attraverso sguardi e gesti critici, silenzi prolungati a modo di “punizione”, insulti e violenza verbale, manipolazione della realtà, controllo, disprezzo, umiliazione e svalutazione del corpo dell’altro,  del suo lavoro, di interessi e preoccupazioni. L’aggressore si mostra nervoso, irritato e ambiguo. Di fronte a questa situazione, la persona che subisce la violenza percepisce l’aumento di tensione e il distacco dal partner, e agisce assecondando il compagno per evitare situazioni che portino allo scontro. Inoltre, riceve il messaggio che la sua percezione della realtà è sbagliata, e inizia a dubitare di sé stessa, non essendo in grado di capire cosa è vero e cosa no, né la gravità di quanto succede. Come conseguenza, appaiono nella vittima i sentimenti di colpa, la vergogna e il silenzio.

Seconda fase: esplosione della violenza
La violenza si presenta in maniera drammatica in tutte le sue forme: fisica, psicologica, sessuale, economica… La vittima vede minata non solo la sua autostima e la sicurezza, ma anche il suo ambiente familiare e affettivo, rimanendo ogni volta più isolata. Si susseguono le minacce, le urla, le accuse di infedeltà e in alcuni casi l’aggressione fisica. La persona che subisce la violenza prova panico e una forte immobilità; se riesce ad agire, è in questo momento che cerca aiuto.

Terza fase: luna di miele
Durante questo periodo l’aggressore si dice pentito e promette di cambiare, pronuncia parole di amore, chiede scusa e si mostra amabile e affettuoso. La persona aggredita è confusa e sconcertata, ma acconsente a perdonare e c’è una riappacificazione temporale. Questa fase si ripete ogni volta con più frequenza, man mano che aumentano gli episodi di violenza, ma i periodi di riconciliazione sono più brevi. All’inizio, la vittima prova un sentimento di speranza e valorizzazione, e spesso se aveva chiesto aiuto o fatto denuncia fa un passo indietro, minimizzando la violenza. Questo meccanismo di “rinforzo positivo intermittente” diventa una specie di dipendenza che rende molto difficile rompere il legame e abbandonare la relazione.

Quando parliamo di violenza di genere, dunque, percepiamo un atteggiamento impulsivo, nato da una rabbia esplosiva di uomini possessivi e ossessivamente gelosi che non concepiscono l’idea di perdita della partner, e che vivono la separazione come un ingiusto abbandono.

Gli psicologi e psicoterapeuti spiegano che questa risposta è dovuta ad un’incompetenza nella gestione delle emozioni negative. L’idealizzazione dell’amore come sogno romantico culturalmente radicato porta così a intrecciare erroneamente aggressione e passione, non dando spazio a emozioni tristi o dolorose, sconfitte o alla vulnerabilità innata nell’incontro con l’altro. Quindi, ci troviamo davanti uomini deboli che non hanno fatto i conti con sé stessi e che non riconoscono la libertà e l’indipendenza della donna.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce la violenza contro le donne “un problema di salute di proporzioni globali enormi”, che provoca un forte impatto sulla loro salute fisica e mentale. Da parte sua, la Dichiarazione adottata dall’Assemblea Generale Onu la identifica come “uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini”, un’eredità delle logiche e degli stereotipi che hanno portato ad uno squilibrio sociale e familiare nei rapporti di potere tra uomini e donne riguardante ogni classe sociale, culturale ed economica.

Per contrastare questo fenomeno strutturale, serve un cambiamento culturale profondo, il quale coinvolge tutta la società, nessuno escluso. Ma nel concreto, cosa è possibile fare? Innanzitutto, rendere visibile il problema e agire socialmente e politicamente. Gli esperti della materia spiegano che da un lato c’è bisogno di sensibilizzare gli uomini e renderli partecipi nello sradicamento della violenza e della cultura del dominio e del possesso. Dall’altro, è fondamentale la prevenzione, educando i ragazzi e le ragazze alla non violenza, insegnando loro a individuare i segnali di pericolo e a chiudere i rapporti con persone che hanno comportamenti violenti sin dalla prima espressione, e sostenendoli affinché imparino a stabilire relazioni affettive sane e rispettose.

In più, un requisito fondamentale è la formazione degli operatori che lavorano in prima linea nei casi di violenza di genere, come le forze di polizia, i medici, gli psicologi…, che devono essere in grado di riconoscerla e di dare una risposta adeguata.

A livello legislativo, si attende l’approvazione da parte dello Stato del nuovo Piano nazionale antiviolenza, che mira a rendere più effettiva la protezione delle donne.

Ci sono da parte della società civile diverse iniziative per condannare questa piaga e difendere le vittime. Per citare un esempio, l’amministrazione comunale di Barcellona Pozzo di Gotto, nella provincia siciliana di Messina, ha deciso di dedicare alle vittime dei femminicidi una nuova scalinata, in ricordo di Graziella Recupero.

Oltre a questo, è a ciascun individuo che deve fare la propria parte nella costruzione di rapporti umani basati sull’accoglienza, il rispetto, e l’armonia, e in cui regni la libertà.

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