Stephen Crane, il segno del genio

Nuova traduzione di un classico americano sulla guerra e la paura, la vigliaccheria e il riscatto
Fonte: Wikipedia

Un ragazzo smilzo dal viso espressivo e occhi scintillanti che vedevano tutto. Un tipo gentile, privo di arroganza, noncurante delle convenzioni sociali. Col gusto del rischio e una conversazione brillante (purché l’argomento lo interessasse). Esigentissimo in fatto di rapporti umani, sembrava incalzato da un fuoco interiore, come per il presagio di una morte precoce. Così ci viene descritto dai suoi contemporanei Stephen Crane, uno che in soli nove anni di attività letteraria riuscì a produrre, tra prosa e versi (versi liberi: una novità per i gusti dell’epoca), dodici volumi tra cui due capolavori come Il segno rosso del coraggio e Maggie ragazza di strada.

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Crane nasce nel 1871 a Newark, nel New Jersey. Quattordicesimo figlio di un pastore metodista morto quando lui ha appena nove anni, aiuta la madre e i fratelli a gestire una agenzia giornalistica che assicura loro di che sopravvivere dopo il trasferimento nella cittadina costiera di Asbury Park. In questa sua collaborazione all’attività familiare c’è già il futuro scrittore che si documenta nei quartieri più poveri, ferito dalle piaghe di un’umanità ai margini.

Nel 1890 frequenta, ma solo per un semestre, la Syracuse University, più giocatore di baseball che studente. Tre anni dopo, a New York, riprende l’attività giornalistica subendo spesso l’onta del cestino per troppa onestà, e pubblica a proprie spese un breve romanzo scritto ancora a Syracuse in soli due giorni e due notti: Maggie ragazza di strada. Il libro infatti, un caposaldo del realismo americano, è così innovativo (anche per l’uso del dialetto, lo slang) che non trova editori disposti a pubblicarlo. Rimarrà invenduto fino alla ristampa del 1896, non essendo il pubblico preparato ad una rappresentazione della società così brutale, antiromantica e priva di raffinatezze stilistiche.

Ma Crane non si dà per vinto: ha già cominciato a scrivere l’opera che a 24 anni lo renderà internazionalmente famoso: è Il segno rosso del coraggio, storia di un giovane volontario della guerra civile americana che deve fare i conti con la propria codardia. Senza aver mai sentito il rombo dei cannoni (ma non senza aver intervistato con scrupolo parecchi veterani), Crane ha scritto un capolavoro di indagine psicologica sul tema della paura, e per di più senza un briciolo di retorica (la guerra, quella vera, il giovane Stephen la vedrà più tardi, e allora avrà modo di verificare l’esattezza delle descrizioni e delle sensazioni immaginate): un classico ora riproposto da Einaudi nella nuova traduzione di Michele Mari, con un ritratto dell’autore di Joseph Conrad.

il Commodore Fonte: Wikipedia

All’improvviso successo, tanto più sorprendente se si considera che nell’opera manca l’ingrediente sentimentale ed erotico, seguono, per quanto riguarda la vita privata, anni di caos e di burrasca, dovuti alle false accuse di satanismo, oscenità e droghe cui hanno dato adito il suo anticonformismo e la sua simpatia per i più derelitti. Reporter in Messico e nel Sud-Ovest degli Stati Uniti (1894-1895), in seguito verrà inviato a Cuba, per seguire le vicende dell’insurrezione contro gli spagnoli. Senonché il Commodore su cui è imbarcato fa naufragio: tre i superstiti fra cui lo stesso Crane, che si ritrova senza più soldi e con la salute irrimediabilmente compromessa, lui che già lotta contro la tubercolosi. Su questa avventura scriverà La scialuppa, tra i suoi racconti più belli (altri diventeranno celebri per aver anticipato il genere western psicologico).

Nell’estate del ’97 lo troviamo sul fronte greco-turco dove, strano a dirsi, si rivela un pessimo corrispondente di guerra: e pensare che con l’immaginazione aveva scritto sull’argomento pagine che qualche critico ha anteposto ad altre analoghe di Tolstoj! Sempre in Grecia, sposa Cora Taylor. Gli ultimi tre anni del secolo li trascorre in Inghilterra, tranne una breve parentesi a Cuba, nel ’98, come inviato del New York World di Pulitzer per seguire da vicino il conflitto ispano-americano.

I cablogrammi che invia dal fronte cubano diventeranno la materia prima per la stesura di undici racconti, pubblicati per la prima volta in Italia da Castelvecchi col titolo Ferite nella pioggia. In essi il realismo esasperato delle battaglie che si scatenano per terra e per mare cede volentieri il passo al grottesco, quando lo scrittore indugia sulle disfunzioni dell’esercito, sulla mediocrità dei colleghi cronisti, sul nazionalismo a tutti i costi. Fino alle pagine superlative che descrivono i marines feriti; e mostrano quel che attraversa un essere umano al cospetto della morte. Chiude il testo uno scritto di Willa Cather, che oltre a darci una immagine fisica e caratteriale di Crane (lo conobbe di persona), sentenzia: «Bevve la vita fino alla fine, ma dal tavolo del banchetto, dove altri siedono a proprio agio e scherzano sul vino, si è alzata una figura scura e silenziosa, cupa come lo stesso Poe, e che non voleva essere capita».

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Il periodo inglese è forse il più felice della sua tumultuosa esistenza: gode della stima e dell’amicizia di grandi scrittori come Conrad, Ford, Wells e James; inoltre per breve tempo si crogiola nel lusso (ha perfino acquistato un castello elisabettiano in rovina). Poi l’assillo dei debiti e gravi problemi di salute: le privazioni degli anni trascorsi nei bassifondi di New York, nonché i disagi affrontati nelle zone di guerra, hanno irreparabilmente minato il suo fisico malaticcio. Per un’estrema cura della tisi che lo consuma, segue la moglie a Badenweiler, stazione climatica della Germania, dove muore il 5 giugno 1900, a neanche 29 anni.

Non ha fatto in tempo ad apprendere nulla da altri suoi colleghi letterati, ma in compenso è ormai un riferimento per gli scrittori americani che verranno dopo di lui, da Hemingway a Lewis a Fitzgerald. Se penso a certi ponderosi best seller del nostro tempo infarciti di intrighi e situazioni inverosimili, tanto più apprezzo le storie di Crane, così scarne e comuni, con la loro verità sfrondata da ogni elemento superfluo e retorico; storie che lasciano un segno per l’acutezza psicologica e la distaccata ironia. Cosa è, in fondo, la vicenda di Maggie, costretta al suicidio per sfuggire alla prostituzione nella New York degli immigrati, se non un fatto di cronaca elevato ad atto di accusa contro una società che si rivela disumana ed ingiusta verso i suoi figli più deboli?

Abbandonando l’immagine realistica garbata, comune al suo tempo, lo scrittore tratteggia i suoi personaggi per quello che sono, nel loro squallore psicologico, nella loro solitudine di vittime spesso innocenti di un mondo ostile, dove è sempre percepibile la presenza di un dolore non risolto, che sta lì ad interpellare il lettore. Fondamentalmente si tratta di puri, quasi bambini abbandonati a sé stessi, seguiti nelle loro vicende incolori, ma che in situazioni-limite sanno ritrovare una primigenia forza e dignità. È questa la cifra inconfondibile del genio di Crane.

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