Stavolta faccio il buono
Mario Opinato, nella vita, è una persona sensibile e ricca dentro. Ma al cinema in genere ha fatto la parte del duro. Sarà per via dello sguardo magnetico, del fisico atletico, di questo quarantenne catanese? Tutto è nato negli Usa – risponde -. Avendo un viso spigoloso e in più un accento europeo, mi affidavano ruoli da mafioso o da terrorista. Ma adesso, qui in Italia, posso giocare con personaggi diversi. Certo, un attore italiano che torna da Hollywood in patria dopo undici anni sa di controtendenza. Ma forse lo sei stato da sempre. Lavoravo come agente assicurativo, a Catania, ma non ero soddisfatto. È questo il motivo per cui devo vivere?, mi dicevo. Era tutto troppo donato. Così, nell’87 ho mollato. Ho fatto il ballerino – 700 mila lire ogni tre mesi – con la Compagnia teatrale di danza contemporanea in Sicilia, sono stato a Rio de Janeiro per la danza sudamericana, e infine a Los Angeles nel ’90: tre anni all’Actor’s Studio di Hollywood, dopo sei mesi di audizioni per essere preso. Vita dura, portavo la pizza a Beverly Hills, facevo il cameriere nel ristorante di un iraniano, ma io mi divertivo a recitare Pirandello o Brecht in teatrini da cinquanta posti, nonostante le porte sbattute in faccia. Poi, una produttrice che mi nota per una serie di film d’azione – quattro in due anni -, fino a Double Tim nel ’97 con Van Damme e Mickey Rourke, The Muse nel ’99 con Sharon Stone… Insomma, venti film tra cinema e televisione: le cose filavano. Con momenti belli, come i complimenti di Sharon Stone durante una scena che improvvisai insieme ad Albert Brooks – un mostro sacro – sul set di The Muse. Finalmente non più trattato come un calzascarpe…! Ma anche solitudine, sconforto: la morte di una zia, cui ero molto legato, che si è portata via un pezzo della mia giovinezza. Un crollo fisico, che mi trascinai per mesi… Ma sono cose che solidificano. Ricominciai, convinto che ho qualcosa che mi guida, una specie di padre spirituale… In realtà, verso i trent’anni ero entrato in una fase di ricerca spirituale. Buddhismo, meditazione, l’incontro con uno sciamano in una riserva indiana. Ci ho messo quasi un anno a ritrovare me stesso. Si era in tanti, dentro una tenda bassa, poi si usciva, ognuno recitava una sua preghiera, io un’avemaria. Ho imparato ad ascoltare, cosa che non facevo mai nemmeno sul lavoro, ad entrare nell’altro, e a vivere il presente, guardando sempre al futuro, recuperando una forza d’animo che tuttora mi aiuta a superare le cose che mi farebbero male. Infine, la decisione di partire per l’Italia… Io ho sempre seguito una specie di fiuto, di intuito nella mie scelte. Los Angeles è una città finta e io ci stavo male ormai. Nel maggio 2001 captai nell’aria qualcosa che mi spingeva a tornare, a provare, solo per alcuni mesi. Meno male, perché a settembre c’è l’episodio delle Torri Gemelle e negli Usa la produzione si ferma. Torno, faccio circolare alcune cassette e mi chiamano per La squadra: senza raccomandazioni di politici o altro, perché questo non mi interessa. Un giorno, a Roma, in piazza San Lorenzo in Lucina, incontro casualmente il regista Serafini – che mi aveva diretto in Texas ’46 – e mi parla di Orgoglio: faccio un provino e mi prendono subito. Orgoglio è una fiction di successo.A maggio si gira la seconda serie, e tu ci sarai. Certo è meglio una bella fiction che un cattivo teatro, perché ora il pubblico nostrano ha il palato fine… Io sarò anche in Borsellino, a fare una parte piccola – ma per me importante – quella di un pentito, mentre per la Nbc americana sarò un sergente romano cattivo in Empire che si gira a Cinecittà. Dovevo anche essere il flagellatore in The Passion e me ne dispiace: ma chissà, non mi avrebbe fatto bene flagellare Cristo… Comunque, cerco di ampliare i miei ruoli, ne vorrei anche uno comico, non solo il contadino buono o il cattivo Tigellino, in Nerone, il prossimo ottobre. Mario, chi è un attore? Alcuni dicono che è un grande bugiardo, ma io non lo sono nella vita e nemmeno sul set. Un attore è uno che lavora con la parola e soprattutto col corpo, è il corpo che ti recita. Per questo, non puoi recitare solo dopo aver fatto un reality show o la velina, come succede in Italia, ma devi aver passato la gavetta, essere serio, molto professionale. Un attore comunque, è un misto fra un mendicante e un artista, certe volte la stessa cosa. Io mi sento un artista, perché quando sono ispirato divento poeta (in inglese) pittore, scultore… anche se non mostro a nessuno quello che faccio. Credo poi nell’amicizia – non per interesse – soprattutto con gli amici d’infanzia. Certo, ora è arrivato un po’ di successo, qualcuno ti telefona per farti i complimenti, devi farti vedere per la promozione della fiction… Ma ci sto attento, perché il nostro è un mondo effimero, basta una fotografia su un giornale e sei sottoterra. Faccio una vita semplice: monolocale da solo, film, letture, musica, qualche cena con gli amici… Ora vivo i miei sogni di ragazzo. Anche se mi sento ancora a fare la gavetta, vado avanti con determinazione. E continuo la mia ricerca spirituale .