Una start up per inventarsi un lavoro
«Cosa vuoi fare da grande?», chiede la maestra. «Io voglio fare il posto fisso». È la battuta folgo- rante di Checco Zalone nel film Quo Vado. «Accendi il tuo futuro, calcola il tuo valore, confronta- ti e trova il tuo lavoro» è il mot- to di Matteo Achilli che inventa una nuova app. La sua vicenda è raccontata nel film The Startup in uscita nella sale ad aprile per la regia di Alessandro D’Alatri (vedi intervista).
Checco Zalone interpreta il sogno dell’italiano medio di trovare un la- voro statale a tempo indeterminato: facile, pieno di privilegi, a km zero. Matteo Achilli è invece un giovane 18enne romano che inventa un social network che fa incontrare in modo innovativo, domanda e offer- ta di lavoro: coniuga idee, volontà e rischio. Da Roma a Milano: in breve tempo Matteo acquista po- polarità e soldi. «L’idea mi è venuta – ci spiega Matteo Achilli – mentre frequentavo l’ultimo anno di liceo scientifico. Notai l’interesse degli studenti per la classifica delle migliori università. Perché non fare la stessa cosa con una classifica meritocratica dei migliori studenti così che le aziende potrebbero essere interessate a consultarle?». Nasce così la piattaforma Egomnia. Il padre di Matteo investe 10 mila euro dalla sua liquidazione e ora l’azienda ha un fatturato di 500 mila euro con un aumento di capitale garantito da investitori Usa. Un sogno italiano molto simile a quello americano. E non è il solo. I nostri ragazzi brillano per creatività. Athonet crea un software in grado di fornire la banda larga senza sfruttare la rete degli operatori tradizionali dove si possono avere interruzioni di servizio. A Mirandola hanno garantito la connessione per gli sfollati del terremoto e per la protezione civile.
Lanieri crea da parte sua abiti da uomo su misura confezionati da artigiani italiani con tessuti 100% made in Italy. È un modello ibrido bidirezionale: le misure si prendono in un atelier e, una volta commissionato un capo, gli ordini successivi sono solo online. O viceversa. È già presente in diverse capitali europee.
Mosaicoon di Palermo, per fare un altro esempio, è stata premiata come la società più innovativa in Europa. Produce e distribuisce video per il web secondo il principio della sharing economy cercando i professionisti: produttori, registi, musicisti che realizzeranno video aziendali. In 6 anni è passata da 3 a 100 dipendenti con 8 sedi in tutto il mondo.
D-Orbit, infine, libera lo spazio dall’immensa massa di detriti accumulatisi negli anni che vagano fuori controllo intorno alla Terra. E così via.
La crescita delle start up innovative
«Il successo – diceva Winston Churchill – è l’abilità di passare da un fallimento all’altro senza perdere l’entusiasmo». Le start up, le nuove imprese, sono l’ambito dove coltivare il sogno della creatività, dell’intelligenza, delle nuove possibilità. Per loro definizione sono sperimentali, destinate al succes- so o al fallimento. Sono laboratori, dove testare nuovi prodotti, vagliare gli appetiti dei mercati, verificare se una buona idea funziona.
In Italia nel 2012 è stata introdotta, con il decreto-legge 179, detto “crescita 2.0”, la definizione di “start up innovativa” come una nuova impresa che svolge attività da non più di 48 mesi, abbia un bilancio non superiore ai 5 milioni di euro e, «oggetto sociale esclusivo o prevalente, lo sviluppo, la produzione e la commercializzazione di prodotti o servizi innovativi ad alto valore tecnologico». Tra i vantaggi la riduzione degli oneri per la costituzione, un regime fiscale e contributivo di favore, la possibilità di stipulare contratti di lavoro a tempo determinato con una durata compresa tra 6 e 36 mesi, incentivi all’investimento, la raccolta diffusa di capitali di rischio tramite portali online, il cosiddetto crowdfunding.
Gli ultimi dati utili, di fine dicembre 2016, forniti dal ministero dello Sviluppo economico ci dicono che il numero di start up innovative iscritte alla sezione speciale del Registro delle imprese sono 6.745, un trend demografico decisamente positivo che segna un +31% in un anno e +112% in due anni. Il tasso di mortalità appare ancora notevolmente basso, mentre il tasso di sopravvivenza delle imprese è molto alto: nel 95,1% del casi risultano ancora attive a tre anni dall’avvio.
In utile è il 43% delle startup innovative, per un giro di affari al di sotto di 590 milioni di euro. E in crescita gli occupati, +44,8% in un anno per un totale di 34.791 tra soci e dipendenti. La regione con la più elevata incidenza in rapporto al totale delle società di capitali è il Trentino-Alto Adige dove oltre 10 società di capitali su 1000 sono una startup innovativa, nel Lazio invece solo 2,5 su 1000.
Secondo il ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, «questa nuova generazione di imprese può lasciare il segno da un punto di vista non solo culturale, ma anche, e soprattutto, economico perché, grazie alla sua attitudine all’innovazione tecnologica e alla sperimentazione di nuovi modelli di business, nel lungo periodo stimolerà un incremento nei livelli di produttività, di competitività ed efficienza dell’intero tessuto produttivo».
Limiti e sfide
Ma non tutto è oro quel che luccica. Ne falliscono troppo poche, generano poco fatturato, meno della metà hanno siti web, attirano pochi investimenti. «Le dinamiche di fallimento – chiosa Marco Bicocchi Pichi, presidente di Italia Start up – dovrebbero essere maggiori proprio per le caratteristiche di una start up. Dovrebbero essere come degli esperimenti scientifici. Si ha una tesi, la si verifica, se non è corretta, si termina l’esperimento e se ne fa un altro. Se invece hanno una mortalità molto più lenta, assomigliano a imprese standard». Per l’economista Stefano Zamagni «le start up partono e decollano bene ma non crescono perché non sono sostenute nella fase di crescita. Occorre una nuova legge per prendersi cura delle start up per almeno altri 5 anni e portare l’impresa alla maturità. Dall’estero tengono d’occhio la creatività delle migliori delle start up italiane e appena possono le acquistano. È uno scandalo nazionale, perché così noi lavoriamo per gli altri e non godiamo dei frutti». Non crede alla teoria del sostegno Domenico Sturabotti, presidente della Fondazione Symbola, ma in un sistema utile alla crescita come nella Silicon Valley. «Serve un ecosistema dove ci sia tutto quello che serve per la crescita. Nel campo manifatturiero noi abbiamo tutte le competenze per sviluppare un prodotto con innovazione, servizi, design. Quello che manca è un simile ecosistema per le start up innovative che possa essere un terreno fertile che permetta di fare un salto di scala». Si spera che le nuove misure dell’ultima Legge di bilancio, «il potenziamento degli incentivi per gli investimenti, il rafforzamento del credito d’imposta per gli investimenti in ricerca e sviluppo, l’istituzione della nuova tipologia di visto dedicata agli investitori, la possibilità di cedere le perdite a società “sponsor” quotate anche se in possesso di una partecipazione minoritaria nel capitale e l’iper-ammortamento per i beni strumentali che abilitano la trasformazione digitale della manifattura», possano generare nuovo valore all’innovazione in Italia.
Comunicare entusiasmo
ALESSANDRO D’ALATRI
Alessandro D’Alatri è regista cinematografico di “Americano rosso”, “Senza pelle”, “I giardini dell’Eden”, “Casomai”, “La febbre”, “Commediasexi”, “Sul mare”. Dal 2014 è direttore artistico del teatro stabile dell’Abruzzo.
A differenza di tutte le tue opere cinematografiche, in questo caso sei il regista ma non l’autore del film The Startup, perché hai accettato? Due anni fa il produttore Luca Barbareschi mi ha mandato la sceneggiatura della storia di Matteo Achilli, l’ideatore della start up Egomnia. Il tema era interessante: il mancato riconoscimento del merito in Italia. Era la storia di un ragazzo figlio di una famiglia semplice e onesta della periferia romana vittima di una serie di eventi dove percepisce il mancato riconoscimento del proprio valore. Si inventa un social dove c’è un algoritmo che analizza il merito delle persone. Nessuno lo aiuterà. Come non appassionarsi?
Ha mai incontrato il vero Matteo Achilli? L’ho voluto conoscere prima di cominciare questo lavoro ed è stato un incontro bellissimo perché gli eventi che raccontiamo nel film lui li aveva compiuti realmente. È stato selezionato da Business insider come uno dei 10 giovani più interessanti al mondo. Non l’ho mai sentito lamentarsi, piangersi addosso, mi ha sempre raccontato come le difficoltà siano state per lui delle sfide anche se il suo percorso è stato complesso. Si è sempre rimboccato le maniche, si sveglia presto la mattina, ha aperto una struttura a Milano, ha dei dipendenti, il suo social ha fatto trovare lavoro a molte persone. Sarebbe interessate farne una serie tv.
Il cinema racconta spesso luoghi comuni di giovani estremi: drogati, eccessivi, delinquenti… Ho raccontato un ragazzo che si è messo a studiare, ha inventato una start up, combatte per difenderla, nel film non c’è una “canna”, non c’è mai una esagerazione. Significa anche raccontare anche un altro mondo che non viene mai rappresentato perché molto spesso il percorso degli studi è mortificato e tanti giovani pensano sia solo un pezzo di carta. È meglio fare altri lavori come l’attore o partecipare ai reality.
Cosa ci insegna questa storia? Che c’è un margine alla speranza che è un grande motore se basata su delle fondamenta, altrimenti è pericolosa.
Per una cultura dell’ottimismo
MARCO BICOCCHI PICHI
Torinese trapiantato in Maremma, sposato e padre di tre figli, imprenditore, consulente manageriale, è presidente di Start Up Italia.
Dal 2012 ad oggi che opportunità per il Paese hanno rappresentato le start up? Aver suscitato l’attenzione verso il fare impresa in tutto il Paese e nei ragazzi la possibilità non solo di cercare lavoro ma anche di crearselo. È un fenomeno positivo di incoraggiamento all’imprenditorialità e di valorizzazione del contributo della ricerca universitaria verso la creazione di nuove imprese che è stato supportato e incoraggiato dalla legislazione.
È un fenomeno, però, ancora allo stato nascente? Se osserviamo i dati c’è ancora troppa similitudine tra imprese coeve nate negli stessi anni come società di capitali o start up innovative. Il tema è ritornare sempre alle origine del decreto-legge 179/2012 e guardare quali erano gli obiettivi: far crescere le aziende, raccogliere capitali, non avere emigrazione intellettuale, essere più attrattivi verso i talenti esteri per fare impresa in Italia. Per le start up è importante non solo trovare i soldi per partire, ma soprattutto per svilupparsi e affermarsi sui mercati che è quello che conta davvero. C’è ancora tanta strada da fare e esserne consapevoli è importante.
34.791 tra soci e dipendenti impiegati nelle start up. Che impatto hanno sulla vita sociale? Bisogna ragionare in modo oggettivo, né in maniera disfattistica, né propagandistica. Queste società hanno coinvolto migliaia di persone, ma quanti ricavano un reddito da queste attività e quanti investono energie, risorse, tempo nell’avventura aziendale? Quanti sono i posti di lavoro che producono anche un gettito fiscale oltre che reddituale? Le start up che hanno ricavi e finanziamenti significativi con cui possono pagare degli stipendi alle risorse umane non sono molte. Hanno un effetto positivo sul lavoro ma al momento generano poco reddito. Se gli incentivi dati dal governo porteranno ad un incremento degli investimenti andranno spesi in stipendi, salari, consulenze, varie forme di lavoro.
Cosa servirebbe per dare un sostegno maggiore alle start up? Una maggiore diffusione della cultura dell’occupazione e un po’di ottimismo perché i nostri ragazzi sono bravi. Mi aspetto maggiori investimenti delle grandi aziende leader italiane e una alfabetizzazione economica degli italiani su crowdfunding, finanziamenti tramite Internet, e la finanza alternativa dei fondi di venture capital.
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Una start up per inventarsi un lavoro.