Stanno tutti bene?
Il cinema italiano spia l’interno familiare. Che sta così così.
Che il cinema racconti la vita in famiglia, non è una novità. Ma che da qualche anno a questa parte, in Italia e non solo, la più vecchia istituzione del mondo sia praticamente al centro della produzione – film e pure fiction –, questo è un segnale. Di attenzione costante. Meglio, di una sensibilità speciale con cui il cinema va accompagnando la vita familiare, con i suoi intrecci e nei suoi (im)prevedibili sviluppi, quasi facendo da sismografo su un elemento in perenne fibrillazione. Lo dimostra la varietà delle situazioni che il cinema nostrano racconta e che misurano la temperatura della famiglia italiana. Come si può osservare da alcuni titoli su cui ci si soffermiamo.
Stanno tutti bene è un film di Giuseppe Tornatore, anno il 1990. Un vecchio siciliano parte da Castelvetrano e viaggia da Napoli a Roma, da Firenze a Torino in cerca dei tre figli. Di essi, uno si rende irreperibile e gli altri due non stanno poi così bene come dicono per telefono. Una situazione non proprio esaltante ,destinata a chiudersi amaramente.
Tralasciando le favolette, tipo la serie Notte prima degli esami – dove la figura paterna è quanto mai latitante-, e passando a cose più serie, ecco ad esempio i film di Pupi Avati, uno che non si tira indietro quando si tratta di famiglia (del resto lui è ampiamente nonno). Due suoi film recenti offrono, si direbbe senza pietà (anche se nasconde bene le lacrime) uno spaccato dell’istituto familiare.
Il primo è Il papà di Giovanna. Una commedia agrodolce di un padre così attaccato alla figlia, un po’ fuori di testa, da nascondere anche il male che ella stessa compie. Pur ambientata nella Bologna degli anni trenta, la storia è una chiara metafora dell’oggi: padri che fanno dei figli un feticcio, dando loro una educazione così protettiva da renderli incapaci di crescere.
C’è di più. Ne Il figlio più piccolo, Avati traccia uno sguardo sul cinismo maschile, raccontando di un faccendiere che, messa incinta una donna ingenua, se la vuol riprendere dopo anni per saldare i debiti, ingannando il figlio “più piccolo”: che,alla fine, apre per fortuna gli occhi.
Accanto ai padri, che non ci fanno una gran bella figura, ci sono i nonni. Onnipresenti, dato che le famiglie sono scoppiate, troppo spesso. In Happy family di Gabriele Salvatores – titolo evidentemente scherzoso – è la nonna Corinna, 80 anni, la più “moderna” (e qui il regista ironizza sulle vecchiette che fanno le giovani), la figura catalizzatrice dei sentimenti dei due adolescenti, figli di due coppie scombinate: nella Milano bene, ovviamente, perché il nostro cinema , chissà perché, quando racconta la famiglia parla molto spesso di persone borghesi, con macchine computer case arredate piscina….e incomprensioni all’ordine del giorno: forse è questo il sogno italiano?
C’è poi il problema dei matrimoni con uomini o donne immigrati. Qui il cinema alterna dramma a gioco. Nel forte docufilm, di Claudio Giovannelli, Fratelli d’Italia, si narrano tre storie di adolescenti – un rumeno, una bielorussa, un egiziano – che vivono tra Ostia e la periferia della Capitale. Sono italiani di nascita, ma i genitori restano stranieri. Il conflitto in famiglia tra le due generazioni porta ad esiti quanto mai duri. Il film è crudele, ma la vita di questi ragazzi, suggerisce il regista, è crudele: apriamo gli occhi.
A volte, sul problema ci si diverte. Luca Lucini in Oggi sposi inventa una commedia spiritosa sul carabiniere pugliese che vuol sposare la figlia dell’ambasciatore indiano. Il gioco degli equivoci, delle tensioni fra un Meridione antico e un Oriente tradizionale sono umoristici, ma alla fine il messaggio passa: l’’Italia, lo si voglia o meno, sta cambiando i connotati fisici e sociali, vita familiare compresa.
Comunque, se è vero che non tutti stanno bene, qualche boccata d’aria la si può avere, grazie a certa gente che, in mezzo alle battaglie della vita, sa tirare avanti e risollevarsi. Un’Italia forse nascosta, ma non dall’occhio di una cinepresa.
Questione di cuore, di Francesca Archibugi, racconta infatti due vite e due famiglie: il meccanico malato di cuore e lo scrittore frustrato che si ritrovano in ospedale. Due Italie, quella operaia che si fa da sola e quella impiegatizia, furbetta, a confronto, scontro e incontro. Sul tema del dolore che almeno al cinema, non viene esorcizzato.
Capita anche ne La nostra vita di Luchetti , vincitore a Cannes, storia del muratore che si fa imprenditore e che, vedovo, fatica a risollevarsi. E’ proprio la famiglia d’origine che alla fine si mette insieme e gli dà una mano. E questo non è cinema, è vita, perché succede. Nonostante tutto dunque la famiglia da qualche parte almeno funziona.
E i figli? Ne hanno bisogno. Nel delicato e incompreso Sul mare di D’Alatri, il barcaiolo che si dispera perché la ragazza di città lo lascia, trova nel silenzio rispettoso di padre e madre, nell’isola napoletana, la forza di ricominciare a sognare.
E’ poco? Per un ragazzo è moltissimo.
Come stia la famiglia, dunque lo si vede. Sta così così. Tutto trema eppure qualcosa ancora continua a tener duro, ed il cinema lo sa raccontare. Qualche barlume di speranza non è ancora andato perduto.