Sposi per sempre

Considerazioni davanti a un’opera-sintesi della civiltà etrusca
Sarcofago etrusco

Eccolì lì, gli sposi, adagiati sul sarcofago fittile tra cuscini e drappi preziosi, come ad un banchetto. Lei porta il tutulus, il tipico copricapo etrusco, trecce ricadenti sul petto e un chitone sopra il manto da cui sporgono eleganti sandali dalla punta all’insù. Lui, avvolto in una tunica che gli lascia il torso nudo, le cinge affettuosamente le spalle.

I volti sono identici, ricavati da un’unica matrice: l’aggiunta dei particolari maschili e femminili è successiva. Qui l’artificio tecnico diventa veicolo di un significato più profondo, spirituale: è l’accordo perfetto tra due sposi, uniti in morte come in vita, che viene celebrato.

 

Guardo quelle mani, così straordinariamente vive da imporsi subito all’attenzione… Scomparse da esse le coppe sollevate nel brindisi che vuol dire comunione, amore, e scomparso nel palmo di lui l’uovo di struzzo simbolo di feconda immortalità, le dita tracciano nell’aria gesti arcani, allusioni e messaggi non più decifrabili; sembrano sfiorare invisibili strumenti.

Una musicalità infatti emana da queste figure pervase di gioia serena, dove il modellato fluido e lineare tradisce l’influsso ionico. Anzi con un po’ di fantasia si può immaginare di udire, lontanissime, le note del doppio flauto, indispensabile a questo popolo come l’aria, come la luce. Con l’espressione un po’ trasognata e un enigmatico sorriso sulle labbra, guardano l’infinito, da bravi etruschi malati di immortalità.

 

Sono ritornato a vederli dopo anni, gli sposi di Cerveteri, l’attrattiva maggiore del museo etrusco di Villa Giulia, ora in fase di ampliamento; museo che ha aggiunto alle sue già prestigiose collezioni quel Cratere di Eufronio illegalmente trafugato da quella stessa antica città e nel 2008 finalmente restituito dal Metropolitan Museum di New York. La spinta mi è venuta dal bisogno, al cospetto di un’opera-sintesi quale è questa, di far ordine tra le tante idee suscitate da letture più o meno approfondite su un popolo che, molto prima di Roma, nel trapasso tra preistoria e storia, sviluppò in terra italica una fiorente civiltà di cui si va sempre più scoprendo l’eccezionale portata.

 

Mentre contemplavo gli sposi, mi sono chiesto quanto di “etrusco“ sia giunto fino a noi, nella nostra cultura, dal naufragio dei secoli. E per primi mi son venuti in mente l’arco e la cupola (quest’ultima, suggerita dalle costruzioni tombali) passati a noi per il tramite dei romani. Per restare nel campo dell’architettura, sembra che la tendenza italiana e perseguire un effetto decorativo immediato risalga al gusto etrusco di concentrare il massimo della decorazione nella facciata del tempio, al contrario dei greci per i quali era importante l’armonia dell’edificio nel suo insieme.

 

Quei laghetti artificiali che in varie località della Toscana servono ad assicurare l’irrigazione di campi e vigneti – il vino, a proposito, altro retaggio etrusco! – sono un metodo già sperimentato con successo dagli antichi abitanti di questa regione. E’ tutto etrusco l’uso di effigiare il defunto sdraiato o supino sul coperchio dei sarcofaghi monumentali; l’inferno poi, così come è rappresentato da Dante e dai medievali, non sembra ricalcato sulle credenze etrusche di un aldilà popolato di demoni spaventosi?

 

A farci caso, nel pastorale dei vescovi si perpetua la forma del lituus, la verga dei sacerdoti etruschi. Mi chiedo poi se l’attitudine godereccia e musicale degli italiani non sia anch’essa una reminiscenza di quegli etruschi che insegnarono ai romani le piacevolezze dell’esistenza e, si può dire, non muovevano un dito senza il sottofondo di un’adeguata colonna sonora. E chissà quanto della imperversante moda astrologica, per non parlare degli strascichi di magia e di occultismo, ha un lontano riferimento con le credenze di questo popolo, terribilmente infatuato dell’arcano e dei segni celesti.

Considerazioni e raffronti potrebbero continuare. Certo, sarebbe interessante sentire i diretti interessati. Senonché i romani, dopo averli soggiogati, fecero piazza pulita di tutte le loro cronache e documenti scritti, stravolgendo a loro favore la verità storica. Uno solo ci provò a scrivere onestamente la storia degli etruschi, e fu nientemeno che Claudio imperatore, quando ormai essi erano scomparsi come popolo. Ma dei suoi Tyrrehenikà in venti volumi non ci è giunto praticamente nulla: con la morte, nel 54 d. C., del dotto imperatore, incompreso dai contemporanei e per di più tacciato di “zuccone” da Seneca, si chiuse anche, come avevano annunciato gli aruspici, la decima e ultima età etrusca.

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