Spettacoli al Teatro dell’Opera di Roma

Dal dittico di Puccini-Bartòk a quello di Pärt-Wilson il teatro romano punta al Novecento ed oltre.
Il tabarro -Fabrizio Sansoni-Teatro dell’Opera di Roma

Una linea ondeggiante scura pervade Il Tabarro pucciniano del 1918, storia di emarginazione sociale. Due protagonisti, anzi tre: Michele, padrone di un barcone che trasporta merci lungo la Senna, l’amante Giorgetta che ha perso il loro bambino, Luigi, l’operaio di cui è innamorata segretamente. Vicino a loro figure un po’ strambe, un po’ disilluse che sognano la campagna o una Parigi di fantasia.

Tra loro c’è un dolore che non ha fine, un amore finito, un altro iniziato ma destinato a morire. La musica pucciniana gorgoglia come un’onda lungo l’unico atto e Michele Mariotti dirige con rara intelligenza una orchestra cupa dai rari sprazzi a rendere suoni opachi, fantasie rare e una inevitabile “amaritudine” di cui è vittima soprattutto la donna.

I video di Bibi Abel sullo sfondo della tela di Böcklin L’isola dei morti rendono in pieno l’aria di disillusione, di sangue e di morte, l’assenza di speranza e gli interpreti, una grande Maria Agresta, il validissimo Gregory Kunde e il corposo Luca Salsi formano un trio canoro insieme agli altri -figuranti compresi – che dà corpo e voce ad una partitura desolata, tra scene fascinose che poi si rivedono, mutate, nel Castello del principe Barbablù di Béla Bartòk, atto unico del 1912.

Anche qui una storia cupa. Il principe è innamorato di Judit, ma la donna insaziabile di amore, di conoscenza vuole aprire le sette porte del castello tenebroso. Insiste: appaiono immagini di sangue, fantasmi laceranti – splendide le proiezioni video – finendo in un buio misterioso in cui si ignora se sia lei che il principe siano finiti o meno. Anche qui è il male – Michele, Barbablù- ad attirare nel suo “tabarro” la donna, ad insinuare la trasgressione nella donna e a portarla nell’oscurità.

La regia di Johannes Erath è lugubremente cinematografica, molto visiva e fisica, specie nelle coreografie tra l’ambiguo e il violento, quanto mai adatta ad una musica atroce, sia in Puccini che in Bartòk, con punte di evanescente leggerezza, subito escluse, specie in Bartòk da una orchestra tagliente, dura e pure ambigua. Da ricordare anche qui la direzione di Mariotti in cerca di estrarre sonorità più aspre e dolciastre da un testo che parla di morte e di mistero, tanto da ricordare la pittura espressionista. Una edizione molto riuscita.

Adam s Passion_PH Kristian Kruuser & Kaupo Kikkas

Adam’s Passion

L’arte è una ma i suoi raggi sono molteplici e tendono all’infinito. È dunque logico che uno spettacolo come Adam’s Passion (2015) della coppia Arvo Pärt e Robert Wilson ne sia un esemplare, a dire il vero, di una acutezza singolare, perfetta. Un universo di luci e di suoni, di movimenti e di stasi, di personaggi e di cori, con figure in corteo che ricordano quelle egizie o etrusche, con Adamo nudo come nelle tavole di Cranach, Holbein e Dürer e sfondi colorati a fasce che rimandano alle enormi tele di Mark Rothko.

È questo e molto di più lo spettacolo in cui recitazione, danza, testo e musica sono non tanto alternate quanto dialoganti e comunicanti come espressioni ognuna di un tutto che è poi una meditazione sul destino dell’uomo. Adamo cacciato dal paradiso senza vestiti – al contrario di quanto dice la Bibbia – deve da solo costruirsi il futuro, “vedere” il futuro dell’umanità. Esso non è facile dai tempi della cacciata fino ad oggi.

I brani musicali di Pärt sono di rara luminosità grazie ad uno stile minimalista – il suo “tintinnabuli” – che predilige due violini, percussioni, un pianoforte “adattato”. Suoni che vagamente echeggiano il gregoriano e le salmodie ortodosse, ma sono altra cosa perché si tratta di effusioni sonore della più profonda interiorità.

Musiche struggenti, spirituali, da paradiso dantesco: dalla Sequentia iniziale all’Adam’s Lament, al Tabula rasa – un Miserere che comprende addirittura il Dies irae, ossia l’innesto tra richiesta di perdono e terrore del giudizio finale. La morte è onnipresente, dietro l’angolo, parla come un filo sotterraneo in questo autentico “oratorio sacro e laico” contemporaneo.

La luce con le variazioni, le tenebre, le apparizioni fra morte e resurrezioni, tra la ”scala di Giacobbe” che sogna Dio e la “casa di Babele” distrutta accentua il simbolismo della rappresentazione: da Adamo nudo a passi lentissimi sulla passerella fra il pubblico – l’umanità di oggi – alla sua dissolvenza fino ad emergere come una statua di Nabuccodonosor – il potere -, al bambino segno della ritrovata infanzia spirituale-, alla vecchia-terra, al coro pallido e gemente, tutto richiama eventi, storia, morte e vita.

Fino all’albero del bene e del male, della conoscenza, ormai stecchito e rapito in alto. Morte e resurrezione, fatica e conquista navigano in questa tragedia dell’uomo che cerca la luce, invocando qualcosa – qualcuno? – di eternamente stellare.

La regia di Wilson è attenta, segue la musica, dispone gli effetti con intelligenza come pure le luci. Nasce una armonia che prende e trasporta sul piano metafisico dove il dolore viene sublimato dai gesti scabri, dai movimenti studiati, in una ansia di felicità che si vuole e si può raggiungere. Ci sono momenti visivi di grande poesia, come il coro con rami di alloro sul palco tra una nuvola candida, Adam e poi il bambino sullo sfondo di un albero scheletrito, e poi le epifanie improvvise di luce come un’unica grande stella. Adam’s Passion si rivela una sorta di immensa invocazione dell’umanità in viaggio verso la luce.

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