Speranza
L’Akalalbêth, parte del Silmarillion del grande scrittore britannico J.R.R. Tolkien (nuovamente alla ribalta grazie alla serie di Prime Video, Il Signore degli anelli: gli anelli di potere), narra la storia di Numenor, la grande isola degli uomini. Vi si trova una intensa riflessione sulla speranza, una delle chiavi fondamentali per comprendere l’Opera di Tolkien e il messaggio che anche ora (forse soprattutto ora) ci dona.
Sostiene che la vita degli uomini è legata o alla speranza o all’ambascia (senso di oppressione). In realtà, l’ambascia esistenziale che ci attraversa è destinata ad essere vinta dalla speranza, che caratterizza ciò che siamo e il modo in cui possiamo e dobbiamo pensarci, anzi “viverci”.
Ed ecco il problema: non è facile vivere di speranza, nella speranza. In definitiva, la grande tentazione dell’essere umano nella storia è stata la ribellione contro questa condizione “speranzosa”. Gli uomini di Numenor, ci racconta Tolkien, portarono allo stremo il rifiuto e questo portò alla rovina non solo la razza umana ma anche la splendida terra che i Valar gli avevano preparato. Il loro peccato fu lasciarsi trascinare dal desiderio di «sottrarsi alla morte subito, anziché affidarsi alla speranza». Qui due parole sono decisive: “subito” e “affidarsi”.
Cosa vuol dire vivere nella speranza? Primo: accettare che siamo esseri mortali e che non ci è stata donata la possibilità di cambiare questo presupposto. Secondo: la morte non è l’ultima parola; anzi, come dice Tolkien, può essere un dono. Ciò che non possiamo fare è sottrarci “subito”. Non è proprio dell’uomo decidere della sua morte, né il come né il quando, perché questa, come la vita, è un dono. È un dono perché fa parte della vita. Riguardo alla morte, non si tratta di “sottrarci”, ma di essere “sottratti”.
Qui, gioca un ruolo fondamentale la seconda parola: “affidarsi”. Vivere nella speranza non è un atteggiamento che rimanda a una concezione tragica dell’esistenza. Vivere nella speranza non è una sorta di ultima uscita, trovata quando tutto il resto è irrevocabilmente crollato. È invece un “affidarsi”; concepire che esiste qualcosa all’inizio e alla fine che va al di là di noi, ma che, in ogni caso, è un dono. Perché solo ad un dono ci si può affidare. Quindi, non un destino cieco, ma un destino come dono. Nei libri di Tolkien, il destino cieco, il “fato” è sempre legato al male.
Vivere nella speranza significa trascorrere un’esistenza pienamente relazionale. La speranza ci aiuta a non chiuderci in noi stessi ma, con un impulso vitale, ci porta a sorpassare i nostri limiti, affidandoci. Non è semplice, è drammatico, ma ci pone in un dramma che, vissuto con gli altri, è straordinariamente bello, semplicemente umano.