Speranza e utopia
Cara Chiara, ci siamo incontrati a Roma quasi trent’anni fa, ad una festa di giovane popolo così entusiasta e felice che a me sembrò perfino un po’ stravagante. Ma poi vennero la conoscenza vera, gli scambi di idee anche molto netti e sinceri. Ricordo un incontro a Loppiano, un momento senza rete dove – tra noi amici di convinzioni diverse – si sfatarono parecchi pregiudizi che, almeno noi, avevamo. Forse eravamo davvero amici da sempre, ma semplicemente non lo sapevamo. Ci stupisti per le tue convinzioni, e provammo antiche consonanze da tanto tempo attese. Parlasti con le parole del cuore, sì sì, no no, aprendoci le braccia con amore totale, senza né riserve né lusinghe. Potevamo volerci bene con sincerità, rispetto, stima reciproca. Potevamo contribuire, ciascuno con le proprie convinzioni, alla tua convinzione. E la speranza – utopia? – di poter costruire un mondo più unito divenne anche la nostra speranza. Sì, molti temi del movimento inducono ad una visione utopica della famiglia umana: sono un richiamo potente, una apertura totale verso un’umanità ferocemente divisa da barriere di qualsiasi tipo. Mi si conferma quanto dice Ernst Bloch, nel suo Il principio speranza, quando sostiene che tutti i veri progetti utopici hanno in comune proprio i valori fondamentali come la giustizia, l’amore fraterno, la comunione dei beni, la libertà dal bisogno e dal lavoro inteso come coercizione, la pace. Chiara, tu a questa utopia ci hai creduto da sempre con visione di profezia, custodendo con noi il tuo sogno perché si potesse avverare. Basterebbe pensare alla tua visione delle cittadelle, che certamente non erano idee meno stravaganti di quelle immaginate da Tommaso Moro per la sua Utopia. Così non mi meraviglia che di fronte alle miserie delle favelas ti sia venuta in mente l’Economia di Comunione, o che a Fontem un briciolo di speranza si sia realizzata non come uno scambio di fedi o di ideologie, ma come dono gratuito offerto nello spirito della fratellanza e del rispetto della cultura di quella umanità, che lo Spirito – o gli Spiriti – avevano posto in quelle foreste tropicali. Il tema stesso dell’abbandono sulla croce, che mise in contatto il movimento nascente con tutta la tematica della teologia novecentesca del silenzio di Dio (dilacerante problema di fede in un mondo da poco uscito dagli stermini coevi al Secondo conflitto mondiale), nel contempo ha recuperato l’atteggiamento cristiano della speranza verso tutti gli uomini, perché Dio si è fatto proprio uomo, e ha pagato fino in fondo la sua umanità. Sì, tutto questo ci ha colpito. Questa tua ostinata interpretazione fraterna del mondo, questa nuova proposta di dialogo tra uomini che, se anche discutono di grandi valori, lo fanno dall’interno di poderose fortezze ideologiche. E per questo a molti di noi, che provenivamo da esperienze anche traumatiche, quelle parole che abbiamo sondato insieme, la fratellanza, la pace, l’indispensabile giustizia distributiva per tutta la famiglia umana ancora in larga misura ignuda e affamata, il valore della coscienza, ci sembrarono, dopo tanto grigiore, la riapertura di spazi di cielo, il rigoglio di una nuova primavera, tesoro di speranze ritrovate e di sentieri interrotti. E quindi ci siamo messi al lavoro, per una strada che abbiamo cercata e percorsa, camminando insieme. Quel senza di voi che ci hai detto ci ha fatto superare tanti ostacoli, dandoci la sensazione di non esserti mai estranei. Quando la notte fatalmente cade su tutte le cose umane, potremmo ancora di nuovo dire fratelli, abbiamo insieme vissuto tante occasioni, siamo stati fortificati nella speranza dei tempi a venire. Grazie, Chiara per quanto hai donato e per quanto ti sarà reso nel tuo cielo, a noi non rimane che dirti tibi sit terra levis. E anche col tuo ricordo, riprendere il cammino.