Sperando che Bush cambi rotta

Stay the course, mantenere la rotta: questo il motto elettorale di George Bush in materia di politica estera. E se le elezioni vengono lette come un referendum sulla rivoluzione nella politica internazionale avviata durante il suo primo mandato, non c’e dubbio che la maggioranza degli americani ha espresso il proprio pieno consenso. Il fatto è che gran parte dell’opinione pubblica mondiale chiede invece all’America di cambiare radicalmente rotta. La ragione di questo disagio diffuso in molte parti del mondo deriva anzitutto dalla questione dell’Iraq, che è tuttavia solo la spia di un nuovo approccio dell’America con il mondo dopo l’11 settembre. Gli americani ritengono, infatti, che da tale data il mondo sia cambiato; e certamente il terrorismo internazionale si è espresso a un livello prima mai raggiunto; ma quella che è cambiata in realtà, è la visione che gli americani hanno del mondo, dato che i problemi manifestati dagli attentati e le loro cause profonde già esistevano. Da questa svolta derivano i parametri della nuova politica estera americana. Una dottrina pericolosa Bush ha in effetti introdotto, più nel male che nel bene, cambiamenti sostanziali nel modo in cui gli Stati Uniti si rapportano al mondo, la cui essenza, ridotta all’osso, si può riassumere nella frase: nessun vincolo, piena libertà di azione. Questo assioma fondamentale ha diversi corollari. In primo luogo, implica che il ricorso all’azione militare in tutti i casi in cui Washington insindacabilmente, ed anche al di fuori del contesto delle istituzioni internazionali come le Nazioni Unite, lo giudichi necessario. Comporta inoltre la creazione di alleanze caso per caso sulla base della scala di priorità stabilita dagli Stati Uniti. Ha tra i suoi fini l’esportazione del modello di democrazia americana (fondato sulla libertà, ma non sull’eguaglianza e sulla fraternità), specialmente nel mondo islamico. Conduce, infine, all’abbandono di ogni impegno vincolante (sostituito eventualmente da piccoli gesti unilaterali) nelle cosiddette questioni globali come il protocollo di Kyoto e il Tribunale penale internazionale. L’involuzione bellica L’aspetto più grave di questo auto- scioglimento dagli obblighi e dalle limitazioni del diritto internazionale è l’adozione di una politica che non esclude, ma anzi presuppone come purtroppo abbiamo già visto) la possibilità del ricorso all’opzione militare non come decisione di ultima istanza, ma come uno strumento utilizzabile in via normale accanto alla diplomazia. Ciò è il riflesso di una nazione che si sente in guerra, una guerra permanente e virtualmente infinita contro nemici evanescenti ma al contempo incombenti, al suo interno (con provvedimenti restrittivi delle libertà civili come il Patriot Act e l’istituzione di un Ministero per la sicurezza nazionale) e al suo esterno (la guerra globale al terrorismo, che, oltre alla guerra guerreggiata, ha prodotto i gravissimi abusi delle prigioni di Abu Ghraib in Iraq e della base di Guantanamo a Cuba). Colpiti al cuore da una violenza cieca e brutale, gli americani si sono affidati alla risposta militare. Ma, come si leggeva su molti cartelli dinanzi alle case dei sobborghi di Washington, war is not an answer, la guerra non è una risposta. Se gli americani vogliono davvero amici ed alleati, allora devono capire che occorre convincere e che non basta vincere. A questo riguardo, le pesanti critiche di Washington per le decisioni sovrane di Spagna e Filippine di ritirare le truppe dall’Iraq sono un fatto inquietante. Inoltre, come nel caso dell’Iraq, l’amministrazione Bush ha spregiudicatamente utilizzato lo slogan tuttofare della guerra al terrorismo per perseguire interessi di lunga data, che nulla hanno a che vedere con la sicurezza degli Stati Uniti. Una pesante eredità Questa è la pesante eredità che Bush lascia con la sua prima amministrazione. Qualcuno, anche in campo democratico, ha detto che in fondo è giusto che sia Bush a succedere a Bush, poichè chi ha fatto il danno abbia la possibilità (e l’onere) di ripararlo. È vero che nella storia del paese il secondo mandato dei presidenti che lo hanno ottenuto è stato sempre molto diverso dal primo. E, proprio guardando al futuro, nel riquadro accanto abbiamo cercato di stabilire alcuni criteri utili per valutare un eventuale ravvedimento di Bush in politica internazionale. L’America e il mondo: pro-memoria per Bush Saprà e vorrà Bush imprimere al corso degli eventi internazionali una direzione costruttiva? Diamo qui di seguito una lista (non certo esaustiva) di sette punti fondamentali, come indicazione di sette virtù capitali in politica internazionale per la seconda amministrazione Bush. In primo luogo, la questione dell’Iraq: Bush non ha mai, in nessun momento, fatto ammenda dinanzi al mondo della precipitazione con cui ha invaso il paese, nella più assoluta illegalità internazionale, nè delle fuorvianti indicazioni sulle inesistenti armi di distruzione di massa. Ma ogni autentica riconciliazione richiede gesti simbolici, non il semplice e freddo riconoscimento di un dissenso passato. Inoltre: rimarranno gli Stati Uniti militarmente in Iraq anche dopo l’auspicata (ma tormentata) transizione alla democrazia, per stabilire una nuova base strategica nella regione? Continueranno a controllare, direttamente o indirettamente, le sue immense risorse petrolifere? Si asterranno dall’influenzare a loro favore le elezioni previste a gennaio 2005 e quelle definitive nel 2006? In secondo luogo, la grande questione del terrorismo internazionale. La guerra globale dichiarata da Washington è tale solo per la portata geografica, ma non per l’ampiezza degli strumenti che andrebbero adottati, e che sono ridotti in gran parte all’azione militare ed alle operazioni repressive. Washington non può illudersi di conquistare i cuori e le menti dei popoli del mondo se non si decide a lanciare un nuovo, grande patto di solidarietà, un new deal per lo sviluppo, aprendo nuove piste di cooperazione, dando una speranza ai popoli emarginati, diseredati, alle masse di giovani disoccupati e senza prospettive, che spesso non hanno conosciuto che guerra e violenza. In terzo luogo, la questione israelopalestinese: con l’uscita di scena di Arafat (inviso agli Stati Uniti) la seconda amministrazione Bush dovrebbe seriamente puntare a sbloccare la cosiddetta Road Map (cioè il percorso diplomatico per giungere alla pace). In quarto luogo, il rapporto con il mondo islamico, che dopo l’invasione dell’Iraq è divenuto critico, e che corre sul filo della contrapposizione di civiltà. La seconda amministrazione Bush dovrebbe comprendere che il pluralismo dei sistemi politici ed economici (purchè rispettosi dei diritti umani fondamentali), oltre che delle culture, è una risorsa e non un ostacolo per la collaborazione internazionale. Parafrasando Gandhi, non c’è una via per il dialogo, il dialogo è la via. In quinto luogo, le crisi legate alla proliferazione nucleare e delle armi di distruzione di massa. Per la Corea del Nord (che le armi nucleari ce le ha davvero), l’amministrazione americana dovrebbe impegnarsi seriamente a trovare una via d’uscita multilaterale, ma accettando anche negoziati diretti se questi servissero ad eliminare un pericolo per l’intera regione. Per l’Iran, la situazione è assai delicata e occorre evitare che precipiti in un confronto aperto: l’Europa (ed in particolare il trio Francia- Germania-Inghilterra) sta facendo un buon lavoro, e non vorremmo che qualcuno a Tel Aviv pensasse di risolvere la questione degli impianti nucleari iraniani con un intervento chirurgico (come avvenuto con l’Iraq nel 1981) che infiammerebbe l’intera regione. In sesto luogo, l’Europa: Bush dovrebbe dare un chiaro segnale di fiducia e di sostegno al processo di integrazione europea, invece di fomentare le discordie europee (per questo ci pensiamo già noi europei) e giocare l’alleanza (momentanea) con l’uno contro il dissenso dell’altro. Infine, le istituzioni internazionali. È vero che nessun presidente americano, anche democratico, accetterebbe di far dipendere le decisioni di politica estera da organismi multilaterali come le Nazioni Unite, ma Bush è andato assai più in là, puntando decisamente a delegittimare l’Onu (che non funziona, ma è tutto quello che abbiamo oggi), salvo utilizzarlo come fosse una via di mezzo tra la croce rossa, la mensa dei poveri e un ufficio elettorale, e ripristinando il pericoloso gioco delle alleanze mutevoli e strumentali. Vorrà Bush nel corso del suo secondo mandato ritornare ad una gestione dei problemi mondiali più concertata e meno pre-cotta?

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