Spazi di libertà creativa

Un progetto che va avanti da anni grazie ad alcune persone che portano in carcere la rivista Città Nuova. Lo raccontano tre protagonisti.
Donna in carcere - foto Istock

Amedeo Lisciani: «La mia esperienza di volontario presso la casa circondariale di Teramo è nata, si può dire, per una serie di fortunate circostanze. Circa dieci anni fa, dopo che una giovane signora, vicina al movimento dei Focolari, aveva donato una decina di abbonamenti della rivista Città Nuova, è sorto il desiderio, in me e in altri, di verificare se questa rivista venisse veramente consegnata e letta. Abbiamo contattato la responsabile dell’area trattamentale e, dopo qualche iniziale diffidenza, lentamente siamo arrivati ad una reciproca e totale fiducia.  Abbiamo cominciato ad incontrare prima ogni quindici giorni, poi ogni settimana, i detenuti ristretti per i reati comuni con il progetto “Lettura mediata Città Nuova”, ovvero lettura e commento di articoli scelti ad ogni incontro da noi o dai nuovi amici. Ci sono stati momenti belli, come quando ci sentivamo chiamare per nome, con saluti pieni di gioia, dai finestroni delle sezioni, altri meno, come quando all’incontro scendevano solo due o tre, per i più vari motivi e, magari noi, per andare da loro avevamo fatto i salti mortali.  Siamo comunque andati con costanza, superando la momentanea delusione, conquistando così, sempre di più, il rispetto e la stima sia dei detenuti sia della direzione della casa circondariale.

Man mano abbiamo incontrato i ristretti in alta sicurezza, poi i cosiddetti protetti ed anche il femminile, dove attualmente va un bel gruppetto di volontarie. Quest’anno, oltre a proporre gli articoli della rivista, abbiamo presentato in tutte le sezioni la lettura del libro di Fernando Muraca Liberi di cadere liberi di volare, edito da Città Nuova, che ha offerto molti spunti di riflessione. Ci siamo resi conto che la lettura condivisa, ad alta voce, costituisce un momento di autentica partecipazione e confronto: qualche pagina viene letta da un volontario, altre dai detenuti che attraverso questo primo approccio al testo, si propongono in prima persona, non come ascoltatori, ma come lettori ed interpreti.

La mia esperienza personale, comune tuttavia agli altri volontari, è stata caratterizzata da un percorso: all’inizio, varcando quei freddi cancelli, salutando le varie figure di riferimento in divisa o meno, ho avvertito una certa distanza, quasi un disagio, che però si superano tenendo presente sempre che aldilà dei ruoli, delle divise, della condizione in cui l’altro si trova, c’è una persona ed è con essa che vogliamo e dobbiamo entrare in relazione. Le nostre volontarie, che si recano da tempo nelle sezioni maschili, e hanno instaurato un’intensa relazione anche con i “protetti”, considerano il loro non un incarico, ma un privilegio e vedono nei detenuti degli “amici”, indipendentemente dalla colpa di cui si sono macchiati. Senza esprimere alcun giudizio, esse si sentono vicine agli “ultimi tra gli ultimi” e li aiutano   prima di tutto ad amare sé stessi per poter a loro volta amare e sentirsi riamati.

Alcuni anni fa abbiamo proposto un concorso sui linguaggi creativi, con una commissione presieduta dall’allora direttrice di Città Nuova, Aurora Nicosia, che ora è giunto alla sua terza edizione, e sollecita i detenuti ad aprirsi alla scrittura e all’arte, ognuno seguendo le proprie inclinazioni e assecondando le proprie attitudini. Ci siamo occupati inoltre di organizzare mercatini di Natale, incontri con studenti delle superiori ed autorità, spazi dedicati ai colloqui, un corso di chitarra, un prezioso intervento del dottor Ezio Aceti, psicoterapeuta che ha incontrato le detenute, e da poco tempo è nato anche un coro gospel di sole donne, veramente brave. Non tutto è facile e non sempre le cose vanno secondo i nostri desideri, le pastoie burocratiche rallentano spesso la realizzazione delle iniziative, anche quando esse vengono accolte con favore dalla struttura».

Luisa Campanelli: «Il progetto “Lettura mediata Città Nuova ci ha fatto ogni volta strada: noi volevamo fare della lettura, una pedana di lancio, che aiutasse i detenuti ad uscire dal grigiore della loro quotidianità, a proiettarsi verso l’esterno, ad immaginare, a riflettere, ad emozionarsi, in modo che tra noi e loro ci fosse la possibilità di condividere veramente un’esperienza da cui ricavare un messaggio da poter vivere insieme. Quando abbiamo proposto il progetto al femminile sono emerse in modo evidente alcune differenze.  Il carcere femminile sembra un mondo a sé dentro la struttura circondariale, perché le donne, anche in carcere, e forse lì più che altrove, patiscono la loro condizione di svantaggio; spesso sono vittime di uomini che le hanno usate, segnate da dipendenze, sembrano più vecchie e malandate della loro età anagrafica, sono in genere meno istruite, tranne qualche rara eccezione, sembrano solidali tra loro, ma molto spesso sono rivali per piccole beghe, gelosie, incomprensioni. Il disagio mentale, conseguente probabilmente a traumi, oltre che all’uso di sostanze, è tangibile ed esplode in maniera a volte inattesa, per una sciocchezza del tutto insignificante a cui si reagisce in modo scomposto, con urla e insulti, aggressioni verbali che rischiano di degenerare facilmente.

La lettura condivisa alle donne ha dischiuso qualche spiraglio di libertà e soprattutto ha dato loro la possibilità di sentirsi valorizzate: sono state invitate a scegliere gli articoli da leggere, ad analizzarne il messaggio e talvolta persino gli aspetti formali, per sottolineare alcune parole-chiave, a guardare le foto e a soffermarsi sulla composizione delle immagini, sui colori. Alcune detenute partecipano con più regolarità al progetto, altre sono discontinue, si distraggono facilmente, sembrano sopraffatte dalle loro preoccupazioni, dal desiderio di parlare, di raccontare, di chiedere cose concrete, la tinta per i capelli, il bagnoschiuma, un pigiama. Alcune ascoltano solo, perché non sanno né leggere né scrivere, ma interagiscono volentieri. Il nostro non è che un piccolo contributo, ma le detenute considerano quell’ora di lettura e confronto una finestra aperta sul mondo esterno».

Malvina Campetti: «Come volontarie, noi provvediamo spesso anche a qualche necessità pratica, di tipo burocratico ad esempio, e con il prezioso aiuto delle Vincenziane, riusciamo a soddisfare alcune richieste. Accompagniamo durante le uscite le detenute e i detenuti che ottengono un permesso premio o in pena alternativa, e queste ore di libertà trascorse insieme permettono di costruire legami stretti di affetto. Un momento particolarmente toccante abbiamo vissuto con Cristina, detenuta e madre di Patrick, il giovane ventenne che, nel giorno del suo compleanno, si è tolta la vita in carcere e sulla cui morte si indaga ancora. Il suo funerale, secondo le abitudini e le tradizioni Rom, è stata un’esperienza che non dimenticheremo.

Il volontariato dentro il carcere, per quanto non sempre facile, è senz’altro un’esperienza positiva, ma le difficoltà maggiori si avvertono fuori dalle mura, quando il detenuto finisce di scontare la sua pena e si ritrova catapultato all’esterno del carcere senza mezzi e senza strumenti per affrontare in modo nuovo la nuova realtà.  Proprio qualche giorno fa, un ispettore ci ha chiesto di accompagnare all’autostazione un giovane della Costa d’Avorio che usciva per fine pena dopo un anno e 4 mesi: i suoi occhi erano lucidi di pianto, il suo sguardo disorientato, spaventato. Senza soldi, tranne quei pochi offerti dalla struttura e da noi volontarie, senza cellulare, in una città del tutto sconosciuta, su di un colle, perchè la casa circondariale è lontana dal centro, con due buste in cui erano raccolte le sue cose, senza nessuno che lo aspettasse e che potesse accoglierlo. Questo ragazzo, dopo otto anni che si trovava in Italia, uscendo dal carcere ha saputo di aver ottenuto il diritto all’asilo politico e, di conseguenza, poter avere il permesso di soggiorno, ma neanche questa notizia lo ha rasserenato, sopraffatto com’era dalla preoccupazione per il suo futuro imminente. Abbiamo avvertito tutta l’inadeguatezza delle istituzioni, l’abbandono nel momento più delicato, il rischio per quel giovane di perdersi nuovamente quasi per “necessità”, inevitabilmente.

Sicuramente dovrà rafforzarsi il convincimento che la pena non può avere solo una funzione punitiva, che i detenuti sono persone e non numeri, e che hanno il diritto di essere messi nella condizione di tornare a vivere».

E per rafforzare il legame tra detenuti e comunità cittadina, quest’anno, oltre al concorso letterario e artistico, si è tenuta nel cuore di Teramo una mostra di tre giorni con le opere realizzate dai detenuti.

Per una descrizione più completa del progetto vedi la brochure allegata di seguito “Città Nuova oltre le mura”.

 

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