Spartaco, gli eremiti e il villaggio fantasma

Alla scoperta di un lembo della Locride ricco di storia, spiritualità e attrattive naturalistiche
Paesaggio al passo della Limina (fonte Wikipedia, GJo)

Senza l’occasione di una gita fra amici, forse non avrei mai conosciuto il passo della Limina: uno dei numerosissimi siti di affascinante bellezza di cui è ricca la Calabria, ben noto a tanti escursionisti. Confine naturale dell’Aspromonte con l’altro sistema montuoso delle Serre, è pure confine tra il versante jonico e quello tirrenico, come indica appunto il toponimo derivante da limen, confine. Già dall’antichità magno-greca crocevia di scambi commerciali e culturali tra le due coste per pellegrini, boscaioli, carbonai, mulattieri, pastori e contadini delle popolazioni montane, ancora oggi il passo della Limina (822 metri di altitudine) abbrevia i collegamenti tra Jonio e Tirreno con il parco nazionale d’Aspromonte e quello delle Serre.

Raggiungiamo in auto questo lembo della Locride favoriti da una nitida mattinata di sole, senza neanche una nuvola. Lasciata la strada di collegamento tra Jonio e Tirreno, dopo una lunga galleria di valico, la rotabile si inerpica verso la montagna della Limina, per chilometri deserta, senza che appaia neanche un luogo abitato in mezzo alla natura incontaminata. Sono fitte foreste di faggi, ontani, lecci, pini e castagni dai lussureggianti tappeti di felci, che salendo si diradano alternandosi a prati e a pascoli; fino ad arrivare ad un altopiano verdissimo quasi privo di alberi.

Secondo gli storici, da queste parti (siamo nel territorio di Mammola) il console Licinio Crasso costruì nel 71 a. C. il famoso “vallo” (fortificazione ai confini di una regione nemica) col quale invano cinse d’assedio Spartaco, lo schiavo ribelle, e il suo esercito raccogliticcio. A conferma, la recente scoperta di questo muro lungo 2 chilometri e 700 metri, oggi quasi interamente ricoperto da muschio, nella foresta aspromontana di Dossone della Melia.

Se volessimo salire ancora di poco, dal monte Limina la trasparenza dell’aria ci permetterebbe di scorgere in lontananza la piana di Gioia Tauro, la Sicilia con l’Etna e le Isole Eolie. Ma ormai siamo arrivati alla prima tappa del nostro itinerario: il santuario di San Nicodemo da Cirò, santo italo-greco vissuto nell’anno Mille che su queste alture si ritirò in solitudine. Molti escursionisti vi arrivano col sentiero detto appunto “dei greci”.

Isolato in questa cornice spettacolare, il santuario che ingloba l’eremo è moderno rifacimento di una precedente struttura ottocentesca sorta sulla primitiva chiesetta bizantina: di questa sono visibili solo le fondamenta di una triplice abside. Ad attendere i visitatori fino al 2022 era un san Nicodemo dei nostri tempi: padre Ernesto Monteleone, saio e barba bianchi, voce bassa quasi per non turbare il silenzio di queste contrade. Ufficialmente eremita dal 2000, ma già insediatosi qui dal 1995 per una scelta di preghiera, contemplazione e penitenza dopo essere stato parroco per 25 anni in vari paesi della Locride, finché l’età avanzata e la salute glielo hanno permesso ha fatto da riferimento per quanti salivano alla Limina per un consiglio o una guida spirituale.

Padre Ernesto non è stato il solo monaco eremita di questa terra dove si percepisce distintamente l’incontro tra spiritualità d’Oriente e d’Occidente: nella stessa diocesi di Locri-Gerace tuttora condividono la sua stessa esperienza di solitudine e di accoglienza padre Frédéric Vermorel, francese e una laurea in Scienze politiche, che ha ridato vita all’eremo di Sant’Ilarione presso Caulonia, e Mirella Muià, iconografa responsabile dell’eremo dell’Unità nel borgo medievale di Santa Maria in Monserrato presso Gerace. Emuli degli antichi anacoreti, hanno entrambi pubblicato il proprio cammino spirituale alla ricerca di Dio: il primo con Una solitudine ospitale (Edizioni Terra Santa); la Muià con La porta aperta dell’orizzonte (Bit Culturali).

La seconda tappa del nostro itinerario richiede un ambiente più fresco dove consumare il picnic. Lo troviamo a pochi chilometri, all’ombra di pini che sembrano voler fare la scalata al cielo. Durante la sosta, allietata dal suono di organetto e tamburello manovrati da due instancabili giovanissimi musici, qualcuno mi segnala la presenza, a breve distanza, di un villaggio abbandonato, dandomene qualche rapido cenno. Come perdere quest’occasione di visitare per la prima volta uno dei tanti abitati della Calabria divenuti paesi fantasma in seguito a eventi catastrofici naturali o per lo spopolamento dovuto all’emigrazione?

Il villaggio occupa un luogo pianeggiante invaso dalle erbe, al limitare di un bosco di pini secolari che gli fanno da solenne fondale. Costruito negli anni Cinquanta del secolo scorso in seguito ad un’alluvione che distrusse le abitazioni di diverse famiglie contadine del territorio, è composto da 7 corpi di fabbrica identici fra loro, ciascuno dei quali poteva ospitare 4 famiglie. In fondo a quella che doveva essere la piazza ed ora è un tappeto verdeggiante, appare una chiesetta dedicata a Maria Assunta.

Purtroppo il villaggio non venne mai abitato da coloro ai quali era destinato: essendo troppo lontano dai loro campi in località Cami-Forada, i contadini rifiutarono di trasferirvisi e si organizzarono diversamente. Mentre mi aggiro tra queste casette silenziose lasciate al degrado (qualcuna è già in parte diruta), fin troppo facile viene la riflessione sull’imprevidenza e il mancato dialogo all’origine di questo abbandono, ma anche sul ruolo che potrebbe avere questo sito per un rilancio turistico dell’altopiano qualora il complesso venisse recuperato e riqualificato.

Da un cartello desumo che il villaggio rivive un po’ solo il 15 agosto, quando per festeggiare l’Assunta molta gente accorre qui dai comuni dei dintorni (ne ho letto i nomi sulle tabelle stradali, salendo: Cinquefrondi, Mammola, Anoia, Giffone, Polistena, San Giorgio Morgeto).

Intanto, l’unico suo abitante in cui m’imbatto è un randagio bianco, disteso sull’erba a riposare all’ombra di una delle casette. Incerto se accettare da me una carezza o se aver timore, tanto dev’essere disabituato alla presenza umana.

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