Souvenir da Puteoli
L’ immagine, incisa con poche varianti su 6 fiaschette vitree del III-IV secolo d.C. – oggi nei musei di Odemira, Praga, Klington, Populonia, Ampurias e Mérida – è quella di una grande città portuale, come doveva apparire a chi arrivava dal mare. Vi sono raffigurati in maniera schematica e priva di prospettiva i principali edifici disposti su più livelli e talora forniti perfino di “etichetta”: anfiteatro, teatro, terme, molo… Di quale città si tratta? Se non bastasse in alcuni di questi reperti la dicitura “Puteoli”, sarebbero sufficienti i resti antichi attualmente visibili per far riconoscere l’attuale Pozzuoli, il principale centro dei Campi Flegrei alle porte di Napoli. Pozzuoli che per oltre tre secoli fu il più importante porto dell’Italia romana e crocevia di merci, genti e culture da tutto il Mediterraneo; celebre per le sue cave di pozzolana, l’ottimo legante per l’edilizia e per quel calcestruzzo che consentì ai romani le più ardite architetture. Una città cosmopolita, terza in Italia per importanza dopo Roma e Capua, che all’epoca del suo massimo splendore vantava ben due anfiteatri e dove fece tappa l’apostolo Paolo nel suo viaggio verso la capitale dell’Impero per esservi giudicato.
Ma torniamo alle nostre ampolle istoriate. Qual era il loro uso? E come mai sono state trovate in luoghi tanto diversi? La risposta sta forse in uno dei monumenti rappresentati: uno stilizzato tempio riconoscibile dal frontone triangolare e dalla statua di una divinità. Gli studiosi ipotizzano trattarsi di quello famoso dedicato a Serapide, il dio egizio il cui culto era molto diffuso in Campania, tempio però che non è stato ancora possibile identificare, anche perché la fisionomia di Pozzuoli è profondamente mutata nel corso dei secoli a causa del bradisismo (il lento abbassarsi o rialzarsi del suolo), dei terremoti e delle frane che hanno sommerso o distrutto vaste zone della città. Sarebbero pertanto, questi contenitori di vetro, oggetti religiosi che i devoti di Serapide acquistavano come ricordo del loro pellegrinaggio, un po’ come avviene tuttora con gli oggetti in vendita in prossimità dei santuari.
E a proposito di souvenir da Pozzuoli, ricordo una vacanza estiva agli inizi degli anni Sessanta. Mentre i miei parenti passavano il loro tempo in spiaggia, io, già contagiato dal “bacillo archeologico”, preferivo esplorare i resti antichi munito di macchina fotografica e di taccuino da disegno, emulando così i viaggiatori del Grand Tour che proprio in questi Campi Flegrei dove Virgilio pose la sede della Sibilla e l’ingresso al regno dei morti venivano ad appagare la loro passione per i miti e le “anticaglie”.
Due i monumenti principali, oggetto delle mie perlustrazioni: a due passi dal porto, il cosiddetto Serapeo (in realtà un pubblico mercato o macellum, la cui ricchezza di marmi pregiati bastava da sola a dire la sontuosità di Puteoli al suo apogeo) e nella zona collinare l’imponente anfiteatro di età flavia.
Più volte inondato e riemerso nel corso dei secoli, il primo è celebre per aver dato inizio agli studi moderni sulle deformazioni della crosta terrestre, considerato un misuratore del fenomeno bradisismico flegreo grazie alla variazione del livello d’immersione registrato su tre colossali colonne dall’azione erosiva dei litodomi (molluschi mangiatori della pietra che vivono solo al pelo dell’acqua). Nell’estate di cui parlo il Serapeo era ancora “a mollo”: sarebbe ritornato asciutto negli anni 1970-72 e 1982-84, dopo un vistoso innalzamento di circa 3,6 metri del litorale puteolano.
Nell’area archeologica ancora adorna di superbe palme (future vittime, purtroppo, del punteruolo rosso), mi dedicai a ritrarre i resti del cortile porticato sul quale si affacciano le botteghe e la sala absidata che in antico accolse statue di divinità e di personaggi della famiglia imperiale; intanto mi beavo del romantico scenario dei ruderi affioranti, l’orecchio teso al sommesso gorgoglio di una sorgente d’acqua termominerale che, mescolandosi a quella marina, dava al monumento l’aspetto di una piscina nella quale frotte di pesci nuotavano pigramente.
Emozioni diverse riservò la visita all’anfiteatro capace di 40 mila posti, il terzo per grandezza dopo il Colosseo e quello di Capua, oggi ridotto a scheletro per essere stato depredato in passato dei suoi materiali lapidei. Avendo trovato anch’esso, come il Serapeo, assolutamente deserto, non senza un certo disagio discesi nei sotterranei che sapevo essere, nel loro genere, tra i meglio conservati dell’antichità. Per fortuna, penetrando attraverso i pozzi di manovra e il fossato sul piano dell’arena, la luce diurna – con un singolare effetto di luminosità da acquario – m’impediva di brancolare nel buio. Dopo aver ammirato la complessa rete di celle e corridoi ingombri di fusti di colonne provenienti dalla summa cavea, tornai con piacere a rivedere il sole.
Nel ridiscendere verso il porto notai lungo la ripa ai lati della strada, soffocate dalla vegetazione e da squallidi edifici moderni, alcune arcate del minore e più antico anfiteatro, non visitabile perché i suoi resti – incredibilmente tagliati dal tronco della ferrovia direttissima Roma-Napoli – sono in massima parte interrati.
Rimandai ad altra volta la visita al nucleo più antico e popolare di Pozzuoli: quel Rione Terra dove, su un promontorio incombente sul golfo, sorgeva l’antica acropoli. Del resto non avrei potuto neanche accedere alla Cattedrale che ingloba un tempio di età augustea: dal maggio 1964 era inagibile in seguito ad un furioso incendio che ne aveva distrutto i tesori di età barocca.
Dopo lo sconquasso causato dal bradisismo del 1972 e più ancora dal terremoto del 1980, l’intero quartiere rimase definitivamente interdetto al pubblico, e i suoi abitanti – per lo più pescatori e artigiani – trasferiti altrove. Il livello del suolo s’era nuovamente rialzato e per Pozzuoli iniziava una lenta decadenza tanto più triste se paragonata alle fortune del passato.
E oggi? Oggetto, dal 1993, di scavi e restauri che ne stanno cambiando il volto, il Rione Terra offre ai visitatori un affascinante percorso sotterraneo che documenta la vita dei puteolani dal periodo tardo-repubblicano al vicereame. Una volta portati a termine i lavori, Pozzuoli potrà vantare uno dei maggiori parchi archeologici urbani d'Europa. Finalmente nel maggio scorso, dopo oltre cinquant’anni di ripensamenti e restauri, la Cattedrale dedicata ai santi Procolo e Gennaro è stata riaperta al culto: l’attuale sistemazione esalta le strutture in buona parte superstiti del tempio (il capitolium?) sul quale era stata eretta. Contemporaneamente nel palazzo vescovile veniva inaugurato un Museo diocesano tra i più importanti del Sud Italia per ricchezza di statue, reliquiari, ostensori, argenti, paramenti sacri, dipinti e libri antichi, e con testimonianze che risalgono agli inizi di una delle più antiche comunità cristiane dell’Occidente.
Mentre dal porto osservo l’antico borgo a picco sul mare, mi chiedo se la sua rinascita comporterà una migliore qualità della vita per chi tornerà ad abitarci. E pensare che Pozzuoli offrirebbe ancora altro. Se, infatti, è notizia confortante lo scavo parziale, nel 2008, dello stadio di Antonino Pio raffigurato anche sulle fiaschette vitree, resta ancora in buona parte da valorizzare l’immenso patrimonio archeologico di questa città ridotta ad un’ombra di sé stessa e che stenta a riappropriarsi della sua identità, penalizzata com’è dalla criminalità, dall’illegalità, da un certo modo clientelare di far politica, dall’economia sommersa e dalla disoccupazione, laddove un tempo tutto il lungomare da Bagnoli in qua era un susseguirsi di industrie. Penso a monumenti notevoli come i mausolei di Via Celle, le grandiose cisterne, gli edifici termali minacciati dall’incuria e dai vandalismi o soffocati tra il cemento.
Malgrado le brutture edilizie e le devastazioni operate dall’uomo, Pozzuoli e dintorni riservano ancora tesori archeologici, storici e naturalistici capaci di attrarre flussi turistici ben superiori agli attuali. Eppure, vuoi per burocrazia e incompetenza, vuoi per indifferenza, non solo la situazione alberghiera è molto carente, ma risulta arduo al visitatore anche rintracciare luoghi e monumenti che tutti ci invidiano.
Altra risorsa sfruttata solo in minima parte – a differenza degli antichi romani che furono insuperabili in questo –, sono le virtù medicamentose delle sorgenti termominerali che abbondano in un territorio vulcanico come i Campi Flegrei. Archeologia e salute: non potrebbe, questo binomio, contribuire a risollevare le sorti di Pozzuoli? Occorrerebbe una sorta di bradisismo ascendente, ma stavolta costruttivo: un sussulto di cittadinanza attiva per opporsi al degrado, senza deleghe di responsabilità e per ri-appassionare i puteolani al bene comune.