Sotto lo sguardo di Mamma Schiavona
Sono venuto in Irpinia, all’interno del Parco regionale del Partenio, che si estende sulla dorsale dei monti di tal nome. Fra questi, ad un’altezza di circa 1.480 metri, svetta con i suoi fianchi fittamente rivestiti di boschi di castagni e faggi il Montevergine, massiccio calcareo che si erge a nord-ovest di Avellino. Io però mi sono fermato a 1.270 metri, dopo aver raggiunto in funicolare da Mercogliano la meta che mi ero proposto: l’abbazia di Santa Maria di Montevergine.
Sullo sfondo verdissimo della montagna, quasi acceca sotto il sole la bianca pietra di cui è fatto il nuovo santuario con l’annesso campanile di circa 80 metri. Candore che d’inverno s’aggiunge a quello della neve, quando l’intero complesso abbaziale è immerso in un silenzio ovattato, che induce a maggior raccoglimento. Candore che dice purezza, verginità…
Santuario tra i più antichi e venerati del Sud (si stima che ogni anno sia visitato da circa un milione e mezzo di pellegrini), qui il culto della Madonna non è legato, come si potrebbe pensare, ad una apparizione, ma alla volontà di un monaco eremita vissuto tra l’XI e il XII secolo, Guglielmo da Vercelli, che dopo aver rinunciato al primitivo disegno di recarsi a Gerusalemme, trovò rifugio su questo monte dell’Avellinese, seguito poi da altri compagni desiderosi anch’essi di solitudine e preghiera.
Col tempo, da quel pugno di asceti prese origine una vera e propria congregazione, riconosciuta nel 1879 da papa Leone XIII col nome di “Verginiana”. Nel corso dei secoli questi monaci, tuttora custodi di Montevergine, si dedicarono all’evangelizzazione (fatto insolito, utilizzavano il dialetto locale per avvicinare i ceti meno abbienti della società), come pure alla cura dei malati, per i quali realizzarono numerosi ospedali sia in Campania che nel resto del Sud Italia.
L’imponente complesso progettato dall’architetto Florestano Di Fausto, che si ispira allo stile romanico, ingloba una chiesa più antica, sorta su una primitiva cappella poi ampliata da san Guglielmo: la tradizione la dice eretta nelle vicinanze di precedenti templi dedicati a Cibele e a Vesta. Altra reminiscenza pagana: pare che il nome antico ed altomedievale del sito fosse "Monte di Virgilio", in quanto si riteneva che il sommo poeta latino avesse qui dei possedimenti. Da “Virgilio” a “Vergine” il passo è breve: così, infatti, sarebbe avvenuto successivamente alla fondazione e consacrazione della chiesa cristiana.
Ma è tempo ormai di far visita al più antico santuario, la cui ultima veste è quella barocca. Qui, nella cappella edificata intorno al XIII secolo da Filippo I d’Angiò, è stata riportata dopo l’ultimo restauro del 2012 la famosissima icona della Madonna di Montevergine. Realizzata su tavole di pino, essa stupisce per le dimensioni: è alta 4 metri e 30 e larga 2 metri e 10. Raffigura una “maestà”, cioè Maria in trono con il Bambino Gesù seduto sulla sua gamba sinistra, che guarda la Madre trattenendo con la manina destra un lembo del suo manto.
Dolce e severa al tempo stesso, la Vergine ha il viso leggermente piegato verso il Figlio, mentre gli occhi sono rivolti verso chi guarda: ed è proprio questo sguardo che attira col suo fascino arcano. Le altre figure sono tutte di minori proporzioni: nella parte superiore dell’icona, due angeli volano sul bordo del trono; altri sei sono raffigurati in quella inferiore, in atteggiamento di venerazione e preghiera. Lo sfondo oro, con la presenza dei gigli angioini, conferma che l’icona venne anticamente esposta proprio in questa cappella gentilizia dei d’Angiò.
E l’autore? Sulle origini di questa gigantesca tavola datata tra il XIII e il XIV secolo sono fiorite storie e leggende poco credibili. Anche a proposito dell’artista si sono fatte le più varie congetture chiamando in causa, fra gli altri, anche Pietro Cavallini o la sua scuola. L’ultima e forse più convincente è quella che attribuisce il dipinto a Montano d’Arezzo.
“Mamma Schiavona” è detta popolarmente questa Madonna. Sul significato di “schiavona” ci ragguaglia il prof. Franco Salerno: «Se teniamo presente che in dialetto napoletano il termine “schiavo” significa “scuro di pelle”, emerge subito l’importanza che i fedeli danno al colore del volto della Vergine. Infatti l’effigie raffigura una Madonna nera, sulla quale sovrasta la scritta Nigra et formosa es, amica mea, parafrasi di una famosa espressione riportata nel Cantico dei Cantici. Il culto delle Vergini nere, come ha dimostrato Bianca Capone, risale appunto ai secc. XII-XIII e rappresenta l’immagine concreta del principio femminile universale. Perché proprio il colore nero? Ma perché nella storia delle religioni mondiali la sostanza nera (identificabile in genere in un misterioso “oggetto” di pietra o avente caratteristiche vegetali) rappresenta il principio della Materia prima che si trova nelle viscere della Terra. E la Vergine (Materia prima/Madre per eccellenza) incarna – al livello più alto e pregnante – l’Archetipo della fondazione dell’Esistere».
Ignorando tutto ciò la maggior parte dei fedeli che hanno asceso il sacro monte, ma ben consapevoli che la vita terrena è un viaggio verso quella futura, cantando si congedano da Maria con queste parole: «E si nuie ci virimmo cà/ ‘nci virimmo all’Eternità» (Se ci vediamo qua, ci rivediamo anche nell’Eternità). Famosi e suggestivi questi canti popolari, che si odono specialmente in settembre, mese in cui più numerosi si susseguono i pellegrinaggi.
E ce n’è un altro particolare. Ogni anno alla festa della Candelora, seguendo una tradizione che risale al Medioevo e, più di recente, l’esempio di Pier Paolo Pasolini, che visitò questo santuario negli anni Sessanta, vengono a rendere omaggio alla Madonna di Montevergine anche numerosi omosessuali e trans. Lo chiamano ’a juta (l’andata): un’usanza che di tempo in tempo contrappone a chi non ama queste esibizioni chi invece vuol difendere il suo diritto alla devozione. «Davanti a Mamma Schiavona siamo tutti uguali», sostengono questi ultimi. E in effetti, contemplando questo volto, viene difficile dar loro torto.