Sotto lo sguardo di Dio

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La città dei senza fissa dimora comincia a non avere più segreti per me. La riconosco da particolari a cui un tempo non facevo minimamente caso. Ora è un giaciglio di cartone e stracci, ora un contenitore di vino vuoto contornato dai resti di un pasto, ora un indumento abbandonato su una panchina… La strada aliena e distrugge chi, in mancanza di un lavoro, di qualche attività costruttiva in cui impegnarsi, è costretto a viverci. Se non è per il freddo o l’alcol, cui si fa ricorso come sollievo alle pene fisiche e morali, è per l’alimentazione approssimata o le malattie a cui si è soggetti. La volontà – tra l’altro – diventa debole, ogni proposito naufraga appena formulato, si è come una piuma alla mercè di ogni soffio di vento (avete presente il protagonista de La leggenda del santo bevitore?). Eppure in questa esistenza precaria e priva di legami stabili, senza altri interessi che non siano quelli relativi alla sopravvivenza, si possono incontrare – più spesso di quanto non si pensi – tesori di umanità. È il caso di Tito (chiamiamolo così), uno dei miei amici barboni di cui ho raccolto queste confidenze. Giacevo nel solito cantuccio sotto le stelle, avvolto nel mio sacco a pelo, quando dal mio torpore, più che vero sonno, mi ha svegliato un battibecco a poca distanza da me. Mi sollevo a metà e scorgo Stefano, il mio vicino di giaciglio, che sta disputando una coperta ad una disgraziata creatura, sbucata chissà da dove. Una figura assurda, da baraccone: immaginate una donna magra ed esile sulla sessantina, capelli grigi arruffati, con un corpetto ed un gonnellino cortissimo, da cui spuntano degli stecchi per gambe, inguainati però in certe calze a rete nere; ultimo particolare, dal collo le pende una croce. Impaurita dal brusco rifiuto di Stefano a cederle la coperta, la poveretta se n’è andata barcollando su quelle gambe che la rendevano così tragicamente simile ad una cicogna. Mi faceva pena, avrei voluto aiutarla, ma non ho avuto la forza di alzarmi e sono ripiombato nel mio sonno senza sogni. Non l’ho più rivista. Com’è diversa, questa Roma notturna, da quella delle discoteche, dei teatri e dei monumenti sapientemente illuminati! Questa gente che passa senza guardare nessuno in faccia, la sento estranea ed ostile. E io stesso, quando sono più giù del solito, l’osservo con distacco, come assistessi alla proiezione di un film che non riesce a coinvolgermi. Dove va così di fretta? Oh, lo so: al lavoro, a scuola, a fare la spesa… tutti hanno uno scopo più o meno valido. Un tempo ero anch’io come loro, più indaffarato di loro. E come invece ora mi sembra tutto senza senso! Non ho più scadenze, orari,impegni, quei paletti che scandiscono i tempi di una giornata. Sì, è vero, ho un orologino da quattro soldi al polso (quello di valore è ormai sparito da un pezzo), ma ho quasi perso l’abitudine a controllare l’orario. A che scopo? Di tanto in tanto, però, dalla massa anonima si stacca qualcuno e oltrepassa l’invisibile barriera che lo separa da me: per offrirmi qualche spicciolo, indumenti, cibo o anche solo una parola, facendomi sentire che esisto ancora. E per uno che fa così, mi riconcilio con l’umanità, anche con quelli che vanno per la loro strada frettolosamente, badando ai fatti propri. Non so come si chiamasse o di che nazionalità fosse. Certo non era italiano. A colpo d’occhio lo si riconosceva per un viado, uno la cui vita è tutta giocata sull’ambiguità del sesso. Un bellissimo giovane, peraltro, vestito con vistosa ricercatezza. È arrivato alle prime luci dell’alba, quando non c’era quasi gente per la via, mentre io ancora intontito dal sonno e intirizzito sostavo davanti alla mia chiesa. Stava proprio entrando lì quando s’è soffermato a guardarmi. Poi ha aperto una borsa, che pareva molto pesante, dicendomi in tono amichevole: Prendi quello che vuoi. Era piena di monete. Di fronte alla mia sorpresa, ha sorriso: Dai, apri le mani. E mi ha costretto a prenderne una manciata. Poi: Ciao, vado dal parroco, lasciandomi con qualche domanda nella testa, riscaldato però da quel gesto da parte di chi meno mi sarei aspettato. L’altra notte ho fatto un sogno che mi ha sconvolto. Io che depreco la violenza, che l’ho subita ed ogni giorno si può dire ne scorgo gli effetti nefasti nella vita che conduco, ho sognato – cosa stranissima, mai successa – un mio compagno delle elementari, cui avevo fatto del male. Mi sono svegliato col volto inondato di lacrime, nel bel mezzo della notte, e incapace ormai di chiudere occhio mi sono lasciato andare ad incalzanti ricordi. Guarino… ne rammento perfino il cognome. Ero forse in terza o in quarta elementare, il primo della classe, tutto compreso dell’antipatico ruolo di capoclasse affibbiatomi dal mio maestro. Questo compagno era un tipo incolore, col volto disseminato di efelidi, timido e taciturno. Un giorno, chissà perché, il suo atteggiamento remissivo mi irritò a tal punto che, senza che il poveretto mi avesse fatto nulla, gli sferrai un pugno in pieno viso. Pura malvagità. Sorpreso io per primo da quella violenza che scoprivo in me, guardai atterrito un filo di sangue colare immediatamente dal labbro di lui, che non gridò ma gemette come una bestiola ferita, timido e discreto anche nel soffrire. Fu in me come la prima consapevolezza di un peccato originale; tuttora, se ripenso a quella scena, provo rimorso, vergogna, e il bisogno di chieder perdono. Stavo divorando un panino seduto su una panchina, quando sul marciapiede di fronte ho visto avvicinarsi due persone. Una giovane africana alta, bella, statuaria, forse una somala, accompagnava per mano, quasi trascinandola, una creatura che avanzava a fatica; non avrei saputo dire se una bambina o un bambino, col suo zainetto dietro le spalle. Man mano che s’avvicinava, mi colpiva il suo volto deforme: quasi una maschera di sofferenza. Nelle vicinanze esisteva un centro di riabilitazione per handicappati mentali. Sicuramente quella creatura (sì, guardandola meglio era una bambina) proveniva da lì. Poveretta, che male aveva fatto per nascere così? Ad un tratto s’è fermata, ha cinto con un braccio il collo della sua accompagnatrice e l’ha baciata ripetutamente sul viso. E l’altra ha ricambiato quel gesto mormorandole parole che non potevo sentire, ma di cui indovinavo l’intensità di affetto. Le ho viste allontanarsi così, tra le lacrime che mi scendevano senza ritegno, non più tanto sicuro che la disgrazia, ogni disgrazia, sia conseguenza di una colpa. Avevo voglia di buttarmi da qualche parte per dormire, ieri notte, ma Grillo (è il suo nome di battaglia), vispo appunto come un grillo, prendendomi sottobraccio mi ha trascinato in un vagabondaggio senza meta e piuttosto a zig zag, date le sue gambe rese malferme dall’alcol. Impossibile resistergli quando è in quelle condizioni: ha acuite le sue facoltà poetiche e clownesche, ed allora ha bisogno assolutamente di un pubblico. Quella volta il pubblico ero io. Dammi un soggetto, ed io te lo recito su due piedi! insisteva. Ed io, per stare al gioco: Davanti al camino…. Col freddo che faceva, era la prima immagine che m’era venuta in mente. Davanti al camino… bene!, ripeté pensoso Grillo. Poi, come per un’improvvisa ispirazione, cominciò a declamare, gesticolando, una poesia inventata lì per lì, in cui si rivedeva bambino, quando s’incantava ai racconti della nonna davanti ad un caminetto acceso. La strada era deserta, le auto rare. Eravamo i padroni della città. Ed ora una imitazione!, riprese Grillo, sempre più infervorato, dopo essersi inchinato ai miei applausi. Fa’ il ladro di galline…. Ah sì!. E saltellando sul marciapiede con le sue gambe magre, Grillo cominciò a guardarsi attorno con aria circospetta, a passare rasente i muri o a nascondersi nel buio di un androne, a mimare insomma tutti i preliminari di uno che intenda penetrare in un pollaio. Ormai mi sentivo coinvolto, e il sonno mi era sparito. Non avevo mai visto Grillo così felice! Poveraccio, l’alcol lo consuma, si alimenta a stento; quella notte poi tremava dal freddo… ma aveva tenuto a darmi un saggio delle sue capacità, quasi a dire che ci sono altre cose che contano, nella vita, oltre al cibo e al tetto. Ci sono barboni che hanno come amico un cane, che condivide tutto della loro sorte con dedizione assoluta. Io invece ho come amico un passerotto. Certo, non è la stessa cosa: estremamente libero per sua natura, arriva quando vuole. C’è e non c’è. Ma ogni sua visita è un tocco di tenerezza. Ormai ha imparato quando è l’ora in cui sbriciolo un po’ di pane sui gradini della chiesa e poi mi metto da parte, in attesa. Lui arriva, saltellando sul travertino, e s’ingozza per bene. A volte, prima di volarsene via, ferma un attimo il suo moto perpetuo per guardarmi col capino inclinato, quasi a chiedersi che cosa ci faccio sempre lì appostato. Deve avere il suo nido sul platano laggiù, perché arriva sempre da quella direzione. Non viene mai quando sono sprovvisto di briciole; il che mi fa pensare che mi tiene costantemente d’occhio. È bello vivere sotto lo sguardo di una creatura così gentile, che in qualche misura dipende anche da me. Mi fa venire in mente che sono sotto lo sguardo di Dio, anche se io non ci penso.

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