Sotto l’incubo Ebola

Perché la diffusione dell’epidemia sembra inarrestabile? L’impreparazione degli ospedali. Il proto-vaccino italiano. Colloquio con Paolo Fabietti medico infettivologo

Fare il medico oggi, in un ospedale di provincia, stretti tra i continui risparmi sui costi e le aspettative dei pazienti per servizi sanitari all’altezza di un Paese civile, non è facile. Eppure Paolo Fabietti, medico infettivologo presso l’ospedale di Latina, affronta subito un altro tema, evidentemente al centro dei suoi pensieri e delle sue preoccupazioni: Ebola.

«Questa epidemia è una novità assoluta nel campo della medicina. In passato le epidemie di Ebola sono sempre state limitate, nel senso che si autocircoscrivevano dopo poche decine o centinaia di casi mortali, cioè perdevano virulenza da sole e si estinguevano. Anche per quanto riguarda la localizzazione, erano in genere epidemie che scoppiavano in zone rurali, per cui finivano presto. Quello che succede adesso è invece qualcosa di catastrofico, come l’Oms sta dicendo già da alcuni mesi. È un’epidemia che ha messo in ginocchio intere nazioni africane: Monrovia, capitale della Liberia, è una città fantasma, che fa pensare per alcuni aspetti alle città della peste del Manzoni o del Trecento, con i cadaveri che vengono lasciati per strada, cadaveri che sono fonte pericolosissima di contagio».

Gli infettati sono contagiosi anche prima che si manifestino i sintomi?

«La contagiosità di Ebola è proporzionalmente maggiore man mano che il paziente manifesta sintomi».

Come si prende il contagio?

«La malattia non si trasmette per via aerea, nel senso che non si trasmette a una distanza di decine di metri, ma è circoscritta ad un metro. Si può essere infettati col contatto fisico, soprattutto con secrezioni, che però possono essere anche sulla pelle, tant’è che per stare in contatto con questi pazienti bisogna indossare tute particolarmente isolanti, ed è necessario disinfettare o eliminare il materiale utilizzato al fine di evitare di portare questo virus ad altre persone».

Ma in Italia il rischio c’è?

«Fino a qualche settimana fa ci sono state grandi rassicurazioni da parte del Ministero, con l’affermazione che il rischio di infezioni era assolutamente remoto. Ora tutto è cambiato, dopo quello che è successo in Spagna con il missionario malato ricoverato in un ospedale non idoneo, l’infermiera che lo ha assistito che si è ammalata a sua volta, e le richieste di dimissioni del ministro spagnolo. Si cerca di dare la responsabilità a questa infermiera, ma evidentemente non era stata formata adeguatamente, così come non siamo formati noi in Italia. Nei reparti di malattie infettive qualcosa si sta cercando di fare, ma sono i Pronto Soccorso sparsi nel Paese che sono ancora senza formazione e senza mezzi. Ci si è ormai resi conto che il pericolo è imminente: se un paziente dovesse presentarsi in un ospedale o un Pronto Soccorso periferico il fatto potrebbe essere sottovalutato, come è successo negli Stati Uniti col malato che è andato in un grande ospedale ed è stato rimandato a casa. È tornato successivamente, con sintomi gravi, e quindi adesso ci sono persone in quarantena perché il rischio che abbia contagiato altri è molto alto. Oltre alla impreparazione culturale, che evidentemente avevano anche gli americani, noi ci troviamo ad avere anche quella strutturale, perché di fatto non siamo ancora pronti a gestire il problema».

Cosa manca?

«La formazione, i materiali di protezione e, in molte Regioni, il personale medico e infermieristico».

Se arriva in Italia sarà un disastro?

«Il Ministero sta cercando di organizzare, però certo dopo diverse settimane in cui questa cosa è stata messa sotto la sabbia il problema sta esplodendo, è diventato mondiale».

Che può fare il singolo cittadino?

«Purtroppo poco. Bisogna informarsi, stare attenti, ma anche vivere normalmente. Non si può bloccare il mondo. La paura di questa epidemia, che effettivamente fa paura, potrebbe impedire i rapporti (anche economici) tra i Paesi, con danni maggiori di quelli che potrebbe fare l’epidemia in campo sanitario. Spagna e Francia, ad esempio, hanno interessi economici enormi in Africa, particolarmente nelle nazioni colpite, Sierra Leone e Liberia, e l’India ha appena annullato un summit con molti paesi africani. Ripeto, non si può bloccare un continente. Non si può pensare di fare un cordone sanitario attorno all’Africa, perché tra l’altro non sarebbe efficace. Il serbatoio principale di questa epidemia sono i pipistrelli che migrano attraverso le frontiere».

A livello mondiale…

«L’Oms sta diffondendo un allarme di primo livello, il massimo possibile. In passato, l’Oms ha utilizzato il livello massimo solo due volte: qualche anno fa per la pandemia inflenzale 2009-10 e quest’anno a maggio per il pericolo di diffusione e ripresa della poliomielite. Adesso è la volta di Ebola».

L’epidemia potrebbe andare fuori controllo?

«I casi raddoppiano ogni sei-otto settimane perché il virus non smette di essere virulento. Il problema è che bastano uno o due pazienti che fuoriescono dalle zone in maniera non controllata, perché nascano focolai primari di una nuova zona epidemica».

Il vaccino italiano?

«Sette anni fa un ricercatore di origine italiana, avendo idee totalmente innovative sui vaccini, si è messo a studiare cominciando proprio da Ebola, visto che nessuno la studiava. Adesso, a fine agosto l'Oms ha ordinato di mandare avanti velocemente tutti i prodotti di studio, fino a superare la fase di sperimentazione. Il vaccino italiano sembra efficace sulle scimmie: é una speranza. Fosse efficace sarebbe una svolta».

La Glaxo l’ha già comprato?

«Già da alcuni mesi la Glaxo ha comprato i “cervelli” di questa aziendina di Pomezia; è una grandissima azienda per cui potrebbe avere le capacità industriali per produrne in grande quantità».

Com’è la vita di un medico in questo momento?

«Posso parlare del Lazio, perché da regione a regione le cose cambiano. La situazione è brutta, non è come venti anni fa. Ormai da più di dieci anni ci sono continui tagli alla spesa, per problemi di bilancio; questo ha portato ad una grave riduzione e invecchiamento del personale sanitario, che viene sovraccaricato di lavoro in un periodo in cui c’è anche un carico di responsabilità, soprattutto medico-legale, maggiore rispetto a 20 anni fa».

E la gente vi denuncia per ogni disfunzione…

«La gente subisce sulla propria pelle il disservizio e lo imputa magari all’infermiere che sta al pronto soccorso, senza sapere che sono le amministrazioni che non danno i fondi per acquistare un presidio o un macchinario o i posti letto che sarebbero necessari, in quanto ci sono problemi di bilancio…».

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