Sotto il sole di Odessa
Conosciuta come “la Perla del Mar Nero”, già nell’Ottocento Odessa era una delle mete turistiche più apprezzate in tutta l’Europa orientale grazie al suo clima soleggiato, alle chilometriche spiagge sabbiose, alle numerose insenature naturali, ai suoi centri termali. Strategica base navale russa in Ucraina, nonché centro di scambi commerciali e zona di transito tra Europa e Asia dal carattere squisitamente cosmopolita, la sua storia è fortemente legata all’Italia fin dalle origini: infatti, oltre a essere stata fondata nel 1794 dall’ufficiale napoletano Giuseppe De Ribas, rappresenta con l’architettura del suo centro storico un omaggio al neoclassico italiano. Inoltre fu proprio un nostro architetto, Francesco Carlo Boffo, a progettare insieme al collega Avraam Melmikov quello che è ormai il simbolo più conosciuto di Odessa in tutto il mondo: la monumentale Scalinata Potëmkin, porta di ingresso della città per chi arriva dal mare.
Qui nacquero lo scrittore ebreo Isaac Babel’, autore dei Racconti di Odessa, e la poetessa Anna Achmatova; qui morì Vasil Evstatiev Aprilov, scrittore e patriota bulgaro. E qui, nel 1905, scoppiò la rivolta operaia sostenuta dall’equipaggio della corazzata Potëmkin, ammutinatosi per il disumano trattamento a bordo, e dalla rivista leninista Iskra: episodio immortalato dal regista Ejzenštejn col suo film del 1925.
Tra le tante attrazioni, il Teatro dell’Opera e del Balletto, vero gioiello in stile neobarocco risorto da due incendi, e le collezioni del Museo d’Arte, uno degli edifici più antichi di Odessa, con opere del Guercino, del Canaletto e del Caravaggio (se, come sembra, una versione della Cattura di Cristo attualmente in restauro è un originale e non una copia). E poi le catacombe, una vera e propria città sotterranea su tre livelli che si estende per oltre due chilometri e mezzo e dicono sia la più vasta rete di gallerie al mondo. Scavate nella roccia calcarea a partire dalla fine del XVIII secolo per volere di Caterina la Grande, durante la Seconda guerra mondiale diventarono nascondiglio dei partigiani.
Non mi soffermo a rivangare una storia travagliata che ha visto, ai nostri giorni, anche questa città coinvolta nel braccio di ferro tra la Russia di Putin e l’Ucraina di Porošenko. Passo invece ad un episodio poco noto del XIX secolo che ha come protagonista un altro italiano, il napoletano Eduardo Di Capua, autore della musica della celeberrima ‘O sole mio, che sembra gli sia stata ispirata da una suggestiva alba nascente sul Mar Nero, mentre nel 1898 soggiornava col padre, apprezzato violinista in tournée, in un albergo di Odessa. Che il sole della città ucraina gli abbia ricordato quello della sua Napoli è più che probabile. Quanti autori, del resto, sono stati ispirati riguardo alla propria patria standone lontani, nella trasfigurazione poetica operata dal distacco e dalla nostalgia? Ne è un esempio Gogol’, che originario dell’Ucraina riuscì a scrivere il suo capolavoro Le anime morte durante un soggiorno romano.
Il Di Capua rivestì di melodia il testo poetico fornitogli – prima della partenza da Napoli – da Giovanni Capurro, lui pure napoletano, poeta e musicista, brillante giornalista e critico teatrale, che tra i successi futuri avrebbe contato Lilì Kangy, canzone musicata nel 1905 da Salvatore Gambardella.
‘O sole mio venne presentata ad un concorso promosso dall’editore Bideri per la popolarissima festa partenopea di Piedigrotta, dove vinse il secondo posto. A diffonderla contribuirono i media disponibili all’epoca: i pianini meccanici e i cosiddetti “posteggiatori” (i musicisti ambulanti napoletani). Ma il vero lancio sul mercato mondiale e il mito che ne seguì si devono alla versione discografica del grande Enrico Caruso, e alle modifiche da lui apportate, subito accolte da altri cantanti lirici desiderosi di fare sfoggio della loro voce: prima fra tutti la conclusione del brano all’acuto, diversamente da quanto scritto dal De Capua.
Caratterizza fortemente il brano anche il ritmo di habanera, lo stesso utilizzato da Bizet per una delle arie più famose della Carmen (L’amour est un oiseau rebelle), ritmo esaltato in qualche arrangiamento dal suono delle nacchere.
Oltre alla melodia, giovò all’universalità della canzone l’aver evitato la descrizione di una storia o del paesaggio partenopeo. Osserva Pasquale Scialò nella sua Storia della canzone napoletana pubblicata da Neri Pozza: «Il testo, fin dal titolo, pone al centro il potere simbolico polivalente del sole che, come l’amore, è entità positiva, portatrice di luce, di calore, di vita dopo una tempesta, e nel contempo emblema del secolo nascente e dell’ottimismo che a esso si accompagna. D’altronde, anche la tonalità in Fa maggiore della musica corrisponde sincronicamente proprio al sole, secondo gli studi etnomusicologici di Schneider».
Purtroppo questo sole non portò fortuna ai due autori, che conclusero la loro esistenza entrambi poverissimi, Di Capua il 3 ottobre del 1917, Capurro il 18 gennaio del 1920. Il primo, accanito giocatore, aveva dilapidato i magri guadagni passando l’intera vita in attesa di una vincita al lotto mai arrivata. Autore di altre celebri canzoni come I’ te vurria vasà, Torna maggio, Maria Mari’, con a carico moglie e tre figli, aveva sbarcato il lunario miseramente come direttore di un’orchestrina e suonatore di pianoforte nei cinematografi. Ormai dimenticato, qualche anno dopo la morte venne commemorato dal poeta Pasquale Ruocco con questo epigramma nel quale si accenna alla sua passione per il lotto: «Di Capua – com’è stato raccontato –/ fu sempre un giocatore sfortunato/ e lui si rassegnava umile e pio,/ ma un giorno vinse un terno: ‘O sole mio».
Anche Capurro fu avvolto dall’oblio, anche a motivo dell’innata modestia che gli aveva fatto sminuire il valore artistico dei propri lavori. Basti pensare che le sue bellissime poesie videro la luce solo a distanza di trent’anni dalla morte. La quale, è stato detto, fu “napoletanissima”: giunto alla fine, i familiari collocarono accanto al suo letto una immagine di san Giuseppe, patrono della buona morte. Sereno, il moribondo volle dettare l’ultima poesia che si concludeva col verso: «Che bona morte, si me sento meglio». E sorridendo, spiegò che san Giuseppe, più che la buona morte, gli ricordava le zeppole, il dolce tipico della festa del santo. Dopo di che spirò.