Sopravviveremo?
Di questi tempi, chi si interessa di Medio Oriente − come giornalista, accademico o esperto, ma anche come testimone − viene sollecitato più e più volte per rispondere a domande a cui risposte definitive non si possono dare: di chi è la colpa? come finirà? il pianeta collasserà? i terroristi ci ammazzeranno tutti? E via dicendo, accecati come siamo nei nostri ragionamenti da media che, con le loro lenti di ingrandimento, rendono universale quel che è particolare.
L’altra sera, a Firenze, di fronte a un centinaio abbondante di studenti universitari in maggioranza cattolici, ma v’erano pure dei musulmani, mi sono trovato a dover rispondere proprio a tali domande. Avrei voluto avere tra le mani la classica palla di cristallo… Quello che ho colto nel cuore di questi giovani, che nei prossimi anni saranno parte della classe dirigente del Paese, è una profonda paura, un groppo alla gola.
Paura di fronte alla violenza gratuita che ha colpito gli israeliani e alle ingiustizie di cui sono vittime i palestinesi dal 1947, alle incertezze di un eventuale intervento degli Hezbollah nel nord di Israele o nel sud del Libano, di fronte alle portaerei statunitensi che hanno varcato lo stretto di Gibilterra per entrare in un mare già popolato dalle navi da guerra della Russia, alle difficoltà in cui versa la dirigenza dei Paesi arabi, che non riescono a condannare chiaramente Hamas per non perdere il sostegno dei loro concittadini, di fronte ai politici israeliani che litigavano mentre si preparava l’apocalisse…
Il tutto nella precarietà sempre più pronunciata, nelle incertezze legate al conflitto nel Donbass, nell’angoscia per il nostro pianeta troppo sfruttato, per i flussi migratori che ingrossano ogni giorno, per il lavoro che sta diventando istituzionalmente precariato. Forse questi giovani e giovanissimi ricevono tutte assieme troppe sollecitazioni, al punto da non sapere più come reagire.
Raccontare loro la storia del Medio Oriente non m’è parso un esercizio accademico: dalle suddivisioni con il righello dell’inizio del XX secolo al post-colonialismo soprattutto dei francesi e dei britannici che hanno fatto fatica a non ipotecare il futuro di queste terre anche dopo la loro indipendenza; dalla tragedia ineguagliata della Shoah alla coscienza sporca degli europei che ha portato a costituire lo Stato d’Israele un po’ frettolosamente, senza capire le conseguenze a medio e lungo termine della vicenda, alla crescita dei fondamentalismi…
Il racconto della storia remota illuminava così il presente, aiutava a non distogliere più lo sguardo dalla tragedia attuale. Conoscere e capire non elimina l’incertezza del futuro, forse nemmeno la paura, ma almeno aiuta a rimanere nel presente, a non soccombere all’angoscia irrazionale, può aiutare a convivere con la paura, ma razionale.
Tale passo in avanti, l’ho costatato nell’incontro serale con gli studenti fiorentini, scioglie le lingue, porta a dare un nome all’incertezza, ad accettarla, illuminando la complessità delle situazioni presenti. E, soprattutto, invita ad agire per la pace, perlomeno nel proprio piccolo, come artigiani di pace, magari maturando poi iniziative su scala più larga.
Avviandosi al termine dell’appuntamento, si è letto assieme un salmo. La preghiera ha assunto un senso più profondo, le parole della Scrittura hanno parlato ai cuori, hanno dato la coscienza che non tutto dipende da noi umani, che la complessità delle situazioni attuali ha sì bisogno di intelligenza e buona volontà, ma anche di una benedizione all’iniziativa umana. Un testo più che bimillenario, come il Salmo 84, è sembrato attualissimo e ha commosso non poco: «Misericordia e verità si incontreranno, giustizia e pace si baceranno. La verità germoglierà dalla terra e la giustizia si affaccerà dal cielo» (Salmo 84, 11-12).
All’uscita dalla sala ho notato nei giovani presenti che sciamavano verso casa sentimenti di pacificazione degli animi e di determinazione nella volontà di pace.
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