Sono stati seme di unità
Roma ospita luoghi sacri da sempre, per i religiosi, per gli storici, per gli artisti. Alcuni stanno in alto, sui sette colli. Altri in angoli più nascosti. E proprio in uno di questi ultimi si trova la chiesa di San Bartolomeo. In un angolo nascosto, ma allo stesso tempo sotto gli occhi di tutti: l’Isola tiberina. Un’isola in mezzo al Tevere, che prima di Cristo ospitava un tempio dedicato al culto di Asclepio, divinità delle guarigioni. Con il cristianesimo quel tempio pagano si è convertito in un antico santuario. Con il Duemila Giovanni Paolo II lo ha consacrato Memoriale dei martiri del XX secolo. Siamo forse abituati a pensare ai martiri come a gente di epoche passate, invece anche il Novecento ha avuto i suoi. Testimoni silenziosi, ma presenti lungo l’arco di tutto il secolo. Mons. Marco Gnavi è direttore dell’Ufficio per l’ecumenismo e il dialogo del Vicariato di Roma e membro della Comunità di Sant’Egidio. Conosce a fondo il Memoriale di San Bartolomeo. Qui a San Bartolomeo – spiega – è rimasto il senso della guarigione. L’antico tempio di Asclepio si è arricchito ora del valore di guarigione del Vangelo. La chiesa raccoglie numerosi oggetti che ricordano vittime storiche del Novecento, provenienti da tutto il mondo. Come nel caso del regime comunista dell’Albania di Enver Hoxa. C’è una pisside proveniente dalle carceri del regime, con cui si celebrava clandestinamente la messa. Qui molti sono stati chiamati a testimoniare con la propria vita, come il gesuita Daniel Dajani, fucilato in quanto spia del Vaticano il 4 marzo del 1946 dietro il cimitero cattolico di Scutari. Ho visitato l’Albania poco prima della caduta del regime di Enver Hoxa – racconta padre Gnavi -. Ricordo la Sigurimi, la polizia segreta del regime: era infiltrata nella vita quotidiana, c’erano delatori ovunque, anche tra gli insegnanti. Oggi l’Albania, nella solitudine dell’economia di mercato, ha altri problemi. Ma nonostante tutto, qualcosa del seme cristiano è rimasto e anima le nuove generazioni. Tertulliano – ricorda ancora padre Gnavi – diceva: Sangue di martiri, seme di unità. Quando i cristiani venivano mietuti, germogliava nuova vita cristiana. Poi, l’America latina. San Bartolomeo custodisce il messale di mons. Romero. Con esso stava celebrando la messa, quando un cecchino gli sparò al cuore. Era il 24 marzo del 1980. Nell’omelia, denunciava il governo del suo Paese, El Salvador, che aggiornava quotidianamente le mappe dei campi minati facendovi camminare sopra i bambini. Ci sono anche oggetti appartenuti a personaggi forse meno conosciuti di mons. Romero, come il card. Posadas Ocampo, impegnato nella lotta contro il narcotraffico e la cultura mafiosa, ucciso a Guadalajara il 24 maggio del 1993. E il francese padre André Jarlan, che viveva immerso in un contesto di scontri, a volte violenti: lo uccisero mentre stava pregando, a Santiago del Cile, il 4 settembre del 1984. C’è una violenza molto diffusa nelle Americhe – spiega padre Gnavi – che fa rumore, ma c’è anche tanta testimonianza cristiana, una presenza che non vuole niente in cambio, pacificatrice, che consola e che lenisce le ferite. Da poco è arrivato a San Bartolomeo il calice di don Andrea Santoro, prete romano, ucciso a Trebisonda, in Turchia, il 5 febbraio del 2006. Anche lui, mentre stava celebrando messa. L’editrice Città Nuova ha pubblicato il suo epistolario. Sono stato con lui in Turchia nel 2001 – riprende padre Gnavi -. Ricordo ancora la sua Bibbia, tutta sottolineata. Quella dei martiri è una forza disarmata, ingenua. Tutta concentrata su una delle più semplici delle cose: il pane. Il pane dell’eucarestia. Se così non fosse stato, nei campi di concentramento, nei gulag, nelle difficoltà durante gli anni della decolonizzazione in Africa, nelle situazioni recenti, non si sarebbero potute vedere presenze così importanti, che – spiega padre Gnavi – hanno dato vita, speranza, hanno portato luce. Hanno saputo morire scegliendo la fedeltà alla volontà del padre. Come nel caso di Evariste Kagarora, del Rwanda. A San Bartolomeo si conserva una semplice Bibbia, che è stata portata da utu e tutsi della Comunità di Sant’Egidio. Evariste venne ucciso a Kigali l’11 aprile del 1994, quando, nel pieno dei genocidi tra le due etnie, dei miliziani entrarono nella chiesa della Santa Famiglia e cominciarono ad uccidere a colpi di machete tutti gli uomini che lì si erano rifugiati da tre giorni. Evariste, poco prima di morire, riuscì a consegnare la Bibbia a sua sorella. Disse che quel libro era prezioso per il dialogo. Nel cuore del massacro, quel gesto estremo è stato l’epifania del bene, come lo definisce padre Gnavi. Simile è la storia di Christian de Chergé, priore del monastero trappista di Notre Dame de la Place, in Algeria, decapitato insieme ai suoi monaci – in tempi terribili per quel Paese – il 21 maggio 1996. Ha lasciato un testamento spirituale – racconta mons. Gnavi – che per molti è incomprensibile, un inno alla fiducia nel Vangelo e anche nell’incontro con credenti di altro segno, con i musulmani. Poi ci sono degli oggetti che ricordano la storia di Floribert, un ragazzo di Goma, in Congo. Lavorava alla dogana, e continuavano ad offrirgli del denaro perché lasciasse entrare una partita di riso avariato nel Paese. Padre Gnavi lo conosceva bene. Mangiavano spesso insieme a Roma. Non aveva nessun tipo di potere politico – dice di lui -, nessuna arma, se non la propria vita e la propria gioia cristiana . Alla fine venne torturato e ucciso, per dieci dollari, la notte fra l’8 e il 9 luglio di quest’anno. La moltitudine di persone presenti al suo funerale ha impressionato i militari, tanto che la catena di sangue si è interrotta. C’è anche un crocifisso mutilato, proveniente dal Messico. In Spagna e appunto in Messico, negli anni Venti e Trenta si fucilavano le statue di santi. Vennero uccisi migliaia di cristiani. Bastava indossare un abito religioso per essere lapidati sulla pubblica piazza. Sono tanti i processi di canonizzazione aperti recentemente per molte di queste vittime. Padre José Trinidad Rangel, padre Andrés Solá y Molist e Leonardo Pérez Larios vennero fucilati insieme, il 25 aprile del 1927, in Messico. Insieme morivano un sacerdote diocesano, un religioso e un laico. Ma San Bartolomeo raccoglie anche lettere provenienti dalla Germania e dall’Austria nella Seconda guerra mondiale. Sono scritte da martiri del nazismo. Il beato Franz Jäegerstätter, cattolico austriaco, venne decapitato nel carcere nazista nei pressi di Berlino il 9 agosto 1943. Fu incarcerato perché si rifiutava, in quanto cristiano, di aderire all’esercito nazista e alle SS. Ritorna, con lui, la frase di quel soldato della Numidia che divenne martire nel 295: Militari non possum, christianus sum. Ma padre Gnavi sa dare una lettura positiva, illuminata, di queste testimonianze: Sono tutti momenti della libertà cristiana di fronte al totalitarismo nazista. È il linguaggio delle beatitudini. Tutti gli oggetti conservati qui – continua – potrebbero far pensare di trovarsi immersi in un mare di sconfitti. Ripenso alle suore delle poverelle di Bergamo, che si sono lasciate contagiare dal virus Ebola. Ma in realtà la nostra sconfitta, che è la croce, non è una sconfitta per davvero. Diceva Giovanni Paolo II, e l’ha ricordato Benedetto XVI: le voci di testimonianza parlano più in alto dei fattori della divisione. Al centro della chiesa, proprio sopra le spoglie di san Bartolomeo, c’è un’icona. Al centro, tra angeli in veste candida e soldati in mimetica armati di fucile, c’è una Bibbia aperta che recita così: Ut omnes unum sint, che tutti siano uno.